Mentre scorrevano le notizie, ieri, stavo leggendo Agus Morales, Non siamo rifugiati. Viaggio in un mondo di esodi, Einaudi. Un libro con la prefazione di Martín Caparrós, che scrive così:
Non vogliamo sapere. Vogliamo, al massimo, informarci – che spesso è l’opposto. Sapere richiede tempo e volontà, l’intenzione di capire, l’impegno di capire; sapere rende più complicato il ricorso alla solita tattica di fare il finto tonto.
E così, come già per i campi in Libia – i porti di partenza, diciamo -, si chiudono i porti di destinazione e si agitano spauracchi smisurati: sproporzionati rispetto a ciò di cui si sta parlando, gonfiati dalla retorica e dal calcolo elettorale. La vita umana scivola via, finisce sott’acqua. Le convenzioni e i trattati internazionali non contano più, la Costituzione – associata al Vangelo, nell’incredibile giuramento di piazza – la lasciamo perdere, le persone diventano oggetti. Ostacoli. Da rimuovere, in una versione delirante dell’articolo 3 della nostra Carta, appunto, straccia. La nostra storia? Pure.
Mentre scrivo Toninelli è in tv a spiegare che le lasciano in mare anche per giorni, quelle persone che per loro non sono più persone. Ricorre a argomenti ridicoli, pacchiani: perché c’è la pacchia e ci sono i pacchiani. «Ci sono viveri», concede. Quando finiscono, che si fa? Perché non possiamo mica dare da mangiare a tutti, giusto?
Il piano inclinato sulle migrazioni è iniziato tempo fa. Ora si precipita. Senza alcun pudore, senza alcun ritegno.
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