La questione dello smalto della donna soccorsa in mare in fin di vita rappresenta, mi auguro, un momento qualificante di un impegno antifa (in questo caso: antifake) che non può essere più rinviato. Sui social e ancor più sulle chat di Whatsapp girano cose totalmente false, che qualcuno inventa, qualcun altro distribuisce e il resto lo fanno risentimento, cattiveria e ignoranza.
Sul piano culturale la questione è purtroppo ancora più grave. Perché un punto che non è stato considerato è che la propaganda fascista qualifica queste persone come sotto-uomini, che non possono né devono avere cura di sé. Non possono avere lo smalto, e non importa se rischiano la vita, per una società in cui si fa di tutto per non rischiare una ruga.
Come per la violenza, che contrastiamo in ragione della sicurezza per poi non considerarla affatto se riguarda persone, in Libia e nel Mediterraneo, violentate, torturate, vendute come schiave. La «sicurezza» vale solo per noi, e per difenderla usiamo l’insicurezza altrui.
Perciò di un naufragio non colpisce il naufragio, che dovrebbe essere sufficiente, colpisce l’intenzione del fotografo e il complotto che gli starebbe intorno.
È la questione della sproporzione e della dismisura, che descrive ciò che accade rispetto ai movimenti migratori e ancora di più verso le persone che migrano. Che non possono essere considerate persone, perché la propaganda possa funzionare.
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