Non più quello che si è sempre detto, il calcio metafora della politica. Il suo contrario.
Si è rovesciato tutto. Un tempo la politica usava il calcio per farsi capire, dalla conferenza stampa dell’allenatore del Milan di ieri si compie la metamorfosi. E a un ministro dell’Interno che avrebbe voluto sostituire (rimpatriare?) due titolari, un allenatore risponde, pubblicamente: con tutti i problemi che ha l’Italia, se poi mi ci mettessi io, a parlare di quello che fa lui. Critica polemicissima, salutata dagli spalti con una standing ovation.
La verità è che calcio e politica, il loro linguaggio, il contesto nel quale se ne discute, sono indistinguibili: è tutto un complotto, l’arbitro è cornuto, lo scontro tra tifoserie è tale che nessuno più segue la partita. E quindi se ne parla nello stesso, identico modo.
Striscioni e tweet sono sovrapponibili, è tutto un insulto e uno sputo, l’avversario è schernito, tutti commentano tutto, si buttano su tutti i palloni, in una confusione di ruoli per cui Salvini sembra il «tennico da bar» di Stefano Benni e Gattuso uno statista, in un eterno «processo del lunedì» che dura tutta la settimana.
L’unica cosa che in politica non è stata introdotta è il Var, di cui avremmo parecchio bisogno, perché sarebbe gustoso rivedere alla moviola le campagne elettorali, le promesse e le cialtronerie che le accompagnano.
La razionalità, però, è bandita. «E allora la Juve?». Avanti così.
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