Questo viene da Paolo Cosseddu, per la lettura (visione) di oggi
«Oggi, sfruttando il potere del sole, ci prendiamo l’energia che Dio ci ha dato. L’energia più rinnovabile che ci sarà mai dato di vedere. E la useremo per diminuire il nostro uso di combustibili fossili».
Jimmy Carter, Presidenza degli Stati Uniti, 1977-1981
Vice è un film di Adam McKay – il precedente, The Big Short, trattava la crisi dei mutui che portarono alla crisi finanziaria globale del 2007 – che attraverso le eccezionali interpretazioni di un cast comprendente Christian Bale, Amy Adams, Sam Rockwell e Steve Carell racconta l’ascesa di Dick Cheney da portaborse di Donald Rumsfled a vicepresidente di George W. Bush, con poteri in particolare sulle questioni militari ed energetiche che nessun suo predecessore aveva mai avuto in secoli di storia della democrazia americana.
Tra le tante cose raccontate attraverso i decenni dal film, a un certo punto si cita la sconfitta dei repubblicani nella campagna post-Watergate, che portò all’elezione del democratico Jimmy Carter. Carter aveva nella sua agenda l’incentivo alle energie rinnovabili e il superamento delle fossili, e come atto simbolico, una volta insediatosi, fece installare i pannelli solari sul tetto della Casa Bianca. Era la fine degli anni Settanta.
Ronald Reagan, che lo seguì sconfiggendolo nelle elezioni successive, con un atto altrettanto simbolico e coerente con suo sostegno senza se e senza ma all’industria petrolifera, quei pannelli solari li fece tirare giù. Era l’inizio di quelli che poi sarebbero stati definiti come gli “edonisti” anni Ottanta, anni di folle sperpero economico che paghiamo ancora oggi.
È impressionante quindi prendere atto di come oggi, con il tema ambientale di nuovo popolare, stiamo in realtà facendo con i suoi oppositori un dibattito che è vecchio, anzi è fossile. Che i problemi erano già ben presenti allora, e che sono già passati quasi quarant’anni, senza che peraltro si siano fatti passi avanti particolarmente significativi, mentre nel frattempo la situazione ovviamente è molto peggiorata. Infatti, gli argomenti sono rimasti i medesimi, e le parole dei suoi oppositori pure, a partire da quel «make America great again» che era lo slogan di Reagan nei primi anni Ottanta e lo è adesso di Donald Trump.
Il film racconta anche altre cose. Ad esempio, facendo un salto in avanti nel tempo, ricostruisce la nascita della famosa macchina comunicativa che i repubblicani misero in piedi per la campagna di George W. Bush nel 2000. La nascita dei primi canali all-news di parte, come Fox News, e delle radio di destra, e un uso fino a quel momento inedito del marketing politico.
«Se invece di “global warming”, che tutti concordiamo suonare molto spaventoso, lo chiamassimo “climate change”, vi farebbe sentire meno preoccupati?», chiede a un certo punto uno degli strateghi alle persone riunite in un focus group. E tutti alzano la mano. Ed ecco perché oggi si sente parlare di un più rassicurante “cambiamento climatico”, e non di “emergenza” o di “disastro”.
Ma le conseguenze di queste politiche vanno ben oltre la posa di qualche pannello solare o la terminologia tipica del dibattito politico. In declino durante la presidenza Clinton, dal 1995 Dick Cheney fu presidente e amministratore delegato della Halliburton, una grande azienda petrolifera ed edilizia. E col suo successivo rientro in politica e la sua nomina a vicepresidente i danni non furono soltanto ambientali: la sua necessità di favorire le industrie petrolifere spinse l’amministrazione americana a trovare un collegamento, poi rivelatosi inesistente, tra gli attentati dell’11 settembre, Osama Bin Laden e Al Qaida, con l’Iraq.
Quel collegamento fu trovato in Abu Musab al-Zarqawi, fino ad allora personaggio marginale del jihadismo. Divenne un leader riconosciuto proprio grazie alla legittimazione dell’amministrazione Bush, cosa che gli rese possibile gettare le basi per l’organizzazione che poi il mondo imparerà a conoscere – e temere – come Isis. In quasi vent’anni dalla seconda guerra irachena, e un numero tragicamente enorme di morti dopo, la Halliburton ha gestito miliardi di dollari in commesse pubbliche e miliardi di litri di petrolio.
Ecco quindi perché non stiamo parlando “solo” di temperature, di specie in pericolo, di qualità della vita – come se non fossero già motivi sufficienti – e non stiamo evocando un ritorno a una vita agreste, o hippy, come amano dire i conservatori per gettare discredito su queste battaglie. Stiamo parlando di enormi interessi economici di pochissimi a danno di tutti gli altri. Interessi che chi li persegue portano, senza che a loro interessi particolarmente, a morte, povertà, disastro. Altro che “greenwashing”.
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