Torno sul libro di Rebecca Solnit – Chiamare le cose con il loro nome, Ponte alle Grazie, 2019 – perché è un manuale perfetto per analizzare – se vogliamo farlo con qualche ambizione culturale e politica – il voto europeo di domenica. E se vogliamo rispondere alla domanda: «Perché partite dal clima? Ci sono problemi più urgenti, le persone non capiscono». Ecco, Solnit aiuta a comprendere. E a rispondere. E ci invita a proseguire.

È un gioco politico e prima ancora linguistico, quello che dobbiamo riconoscere e imparare a giocare anche noi, contro chi muta le parole e le piega ai propri interessi. È una questione ideologica, la loro, perché nega la realtà o la interpreta per convenienza immediata, con il rischio di perdere tutto quanto nel breve volgere di pochi anni.

«Il cambiamento climatico è violenza», dice Solnit. E spiega perfettamente perché si debba agire insieme, perché tutto è collegato, lo sono le persone tra loro, lo è l’uomo con l’ambiente nel quale vive. Cose talmente ovvie che sono decenni che agiamo all’incontrario, e devastiamo tutto. È violenza di chi comanda – violenza invisibile, mentre si puniscono duramente le violenze degli ultimi – e provoca violenza tra le persone comuni, con un aumento della conflittualità, che può rendere «la nostra epoca di cambiamento climatico anche un’epoca di guerre civili e conflitti internazionali».

Solnit cita Tom e Daisy de Il Grande Gatsby.

«Erano gente sbadata» scriveva F. Scott Fitzgerald della coppia protagonista del Grande Gatsby. «Sfracellavano cose e persone e poi si ritiravano nel loro denaro o nella loro ampia sbadataggine o in ciò che comunque li teneva uniti, e lasciavano che altri mettessero a posto il pasticcio che avevano fatto».

È l’elefante più grande del loro, come ha scritto Fabio Chiusi, riprendendo alcune mie considerazioni:

Su un piano ancora più fondamentale, la stessa idea di cambiamento climatico risulta offensiva agli isolazionisti perché ci dice in modo più chiaro e urgente che tutto è connesso, che l’isolamento non esiste. Ciò che fuoriesce dal tuo tubo di scappamento, dalla tua ciminiera o dal tuo sito di trivellazione che perde contribuisce a cambiare quanto circola nell’atmosfera, dove le sempre maggiori quantità di biossido di carbonio e altri gas serra fanno sì che la Terra trattenga un calore maggiore di quello che riceve dal Sole, che a sua volta ha come risultato non solo quello che chiamavamo riscaldamento globale, ma il caos climatico.

Dobbiamo imparare a illustrare un altro punto di vista, «Break the Story», dice Solnit, con espressione tipica del giornalismo americano.

Gli scienziati ci stanno avvertendo: dobbiamo necessariamente lasciare nel sottosuolo la maggior parte delle riserve di combustibili fossili di cui conosciamo l’esistenza se vogliamo che il cambiamento climatico si fermi alla sua espressione moderata e non arrivi alle sue espressioni più estreme. Limitarlo all’espressione moderata significa risparmiare un’infinità di persone, di specie animali e vegetali e di luoghi. Nello scenario migliore, Il danno all’ecosistema sarebbe ridotto. In pratica, in questo momento stiamo discutendo su quanto devastare la Terra.

Immaginare il futuro è inquietante, ma non possiamo più rinviare questa presa di coscienza, né abbandonarci ad astrazioni che non spieghino qual è il punto. E il punto è drammatico, sul piano sociale e esistenziale, insieme:

Una frase logora, «distruzione della Terra», ma traducetela nell’immagine di un bambino che sta morendo di fame e di un campo arido, e poi moltiplicatela per diversi milioni di volte. O semplicemente visualizzate i piccoli molluschi: capesante, ostriche o lumache del Mare Artico che non riescono più a formare le loro conchiglie nelle acque divenute troppo acide. Provate a pensare a un altro tifone che fa piazza pulita di un’altra città. Il cambiamento climatico è violenza su scala globale, contro i luoghi e le specie viventi come contro gli esseri umani.

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