Siamo più di ogni altra cosa un popolo di migranti. Appena unita l’Italia ha cominciato a “sparpagliarsi”. Dal 1861 ad oggi sono state registrate più di ventiquattro milioni di partenze. […] Tra il 1876 e il 1900, prevalentemente il Nord, con tre regioni che hanno fornito da sole il 47 per cento dell’intero “contingente migratorio”: il Veneto (17,9 per cento), il Friuli Venezia Giulia (16,1 per cento) e il Piemonte (12,5 per cento). Nei due decenni successivi, il primato è passato alle regioni meridionali. Con quasi tre milioni di persone emigrate soltanto da Calabria, Campania e Sicilia. Quasi nove milioni da tutta Italia.
C’è un dato che ti invito a non sottovalutare: gran parte della nostra emigrazione è stata clandestina. In un tempo neanche troppo remoto, i clandestini, i “messi al bando”, eravamo noi. Noi, gli italiani. Anche la gente del “Nord”: lombardi, veneti, piemontesi, friulani. Come ha documentato Sandro Rinauro nel libro Il Cammino della speranza, ancora nel secondo dopoguerra l’immigrazione italiana clandestina superava quella regolare. Nel 1959, in Germania, gli immigrati “invitati” con selezione ufficiale, chiamati a svolgere un lavoro già assegnato (come si vorrebbe dai migranti di oggi) erano 24.000, mentre erano 1000 in più quelli entrati illegalmente, spinti dalla fame, dal bisogno. Negli anni successivi alla guerra, nella regione di Parigi l’80% degli immigrati italiani era arrivato senza un contratto di lavoro, clandestinamente o con un visto a tempo. Fortunatamente il Governo francese si mostrò accomodante, perché quella manodopera serviva, e fece ricorso alle sanatorie. Negli Stati Uniti uno dei soprannomi affibbiati agli italiani era “Wop”, cioè without passport, “senza documenti”. anche la gran parte dei familiari, che emigrava per raggiungere chi aveva trovato lavoro all’estero, lo faceva illegalmente. […]
Dunque, se c’è un popolo che ha il dovere di ricordare è il nostro, che avuto una recente, imponente storia di migrazione, fatta anche di sofferenze, fatiche, umiliazioni, di “no” sbattuti in faccia.
Luigi Ciotti, Lettera a un razzista del terzo millennio, Edizioni Gruppo Abele. Aggiungo che lo siamo ancora, un grande paese di emigrazione. Lo siamo sempre stati. Al nostro interno, da sud verso nord, soprattuto, e verso l’estero. E chissà cosa accadrà in futuro, in un paese sempre più fragile, con variabili che ancora tendiamo a non considerare, come quella dei cambiamenti climatici. Che riguarderanno anche noi, anche se facciamo finta che a noi no, non ci riguardano. Noi dobbiamo chiuderci dentro, dice qualcuno. Speriamo di non essere mai costretti a scappare a nostra volta, come accadeva ai nostri nonni. Come troppo spesso accade ai nostri figli.
#ilibrideglialtri
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