C’è un brano di David Hume che è molto caro a Giulio Giorello e, nel mio piccolo, anche a me. Che parafraserei così.

«Quando scorriamo i libri di una biblioteca, persuasi di questi principi, che cosa dobbiamo distruggere? Se ci viene alle mani qualche volume, che riporta dichiarazioni astratte e parole di circostanza sui temi economici o posizioni superficiali per non disturbare nessuno: Contiene qualche ragionamento astratto sull’economia del nostro Paese? No. Contiene qualche ragionamento sperimentale su questioni di fatto o di esistenza, che riguardano direttamente la vita dei nostri concittadini? No. E allora, gettiamolo nel fuoco, perché non contiene che sofisticherie ed inganni».
Ecco, non mi rivolgo alle sardine come movimento, i cui contorni mi sfuggono, ma a chi fa parte della grande piazza del fu centrosinistra.

Ora che ci siamo resi conto della minaccia, e siamo scesi in piazza e ci pare di essere tanti, ci rendiamo anche conto che per contrapporci alla minaccia non basta mobilitarsi contro di essa, ma c’è bisogno di una qualche iniziativa, che tenga insieme teoria e pratica politica?

E c’è bisogno – soprattutto – di avanzare proposte precise soprattutto a chi sardina non è, sta fuori dalla piazza e dalla scatola.

Sui rapporti di forza e di potere, sui salari, sui diritti, sulla progressività fiscale, sugli investimenti, sullo schierarsi dalla parte di chi fa più fatica, di chi è travolto dai processi economici, da chi si sente escluso e marginalizzato e si è fatto prendere, ormai da tempo, da una rabbia sorda e senza speranza, come lo sono le nostalgie del Ventennio, gli identitarismi sempre più stretti e soffocanti, la ricerca ossessiva di un nemico a cui attribuire ogni colpa.

E anche all’interno del nostro variopinto mondo, ci sono alcune questioni che dovrebbero tenere banco (scusate), a cominciare dal clima, dall’immigrazione e dallo ius soli, dalla Libia, dalla politica estera, dalle scelte di fondo, cioè, senza le quali ogni governo assomiglia all’altro. E nella notte oceanica tutte le sardine sono nere. Non si può stare con le ragazze e i ragazzi del venerdì e non fare quasi niente di ciò che chiedono. Non si può stare con Minniti e applaudire Mannocchi. Non si può dirsi amici dei curdi e assistere all’indifferenza generalizzata, come se niente fosse. Non si può invocare la pace e non fare che poco o nulla sulla questione degli armamenti. Non si possono lasciare in vigore i decreti Salvini, incostituzionali e indegni.

So quanto i modi siano importanti e mi fa piacere che dopo anni di rodomonti e decisionisti (votati da molti che ho visto in piazza, ahinoi) si riscopra la complessità e la mitezza. I modi sono importanti, appunto. A volte decisivi. La Costituzione parla di «metodo democratico», non a caso. Ne ho scritto tanto, in questi anni. Il linguaggio manomesso e manipolato rovina la nostra democrazia e devasta la Repubblica, come se fosse un morbo. E non può non che farmi piacere quanto sento provenire da quelle piazze. La sostanza però deve preoccuparci ancora di più. E anche quella che un tempo si chiamava direzione politica.

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