La quarantena si è quasi subito ridotta a una quattrena, se è vero che i presidenti delle Regioni del Nord ora riaprono tutto quanto, rovesciando il quadro che avevano descritto all’inizio della settimana. E oggi è giovedì. Anche la stampa, che ha strillato le notizie più terribili per giorni, ora punta tutto su toni rassicuranti, cauti, circospetti.

Quando questa crisi passerà ne parleremo con calma, perché le contraddizioni hanno portato presto, prestissimo a una sorta di cortocircuito politico, culturale e anche scientifico. E non so perché ma la cosa non mi sorprende affatto.

Ora pare che il desiderio sia quello di uscire dallo stato di calamità senza dovere inaugurare uno stato di calamità della calamità, pensando soprattutto ai danni economici che questa situazione comporterà. Per il ceto politico, d’altra parte, si tratta soprattutto di capire dove va a finire il loro posto, se il governo reggerà, come andranno le elezioni regionali. È il poltronavirus, imparentato con quello di cui sopra.

Però forse dovremmo fermarci a riflettere. Perché – anche se temo che non ne faremo tesoro – la storia del coronavirus potrebbe insegnarci che siamo già in una crisi profonda, che è climatica, globale, interconnessa, e quindi economica, e quindi sociale, senza soluzione di continuità. E senza alcuna soluzione, in generale, se andremo avanti così.

Da questo punto di vista siamo già tutti contagiati, dal modello di sviluppo di cui non riusciamo a fare a meno e anche dalle sue conseguenze. Certo, il fatto che gli orsi polari si mangino tra loro perché non c’è più ghiaccio dove andare e il loro habitat è irreversibilmente compromesso, ci tocca poco. Anche l’orango senza foresta o il koala che è scappato dagli incendi, giusto un po’ di più. Dell’Amazzonia che Bolsonaro sta falciando, falciando anche gli attivisti e le comunità che resistono, non ci frega letteralmente un cazzo.

Con la scienza abbiamo un rapporto tutto sbagliato, magico e quindi perfettamente antiscientifico. E in questo non siamo nemmeno aiutati da scienziati che abdicano al proprio ruolo perché preferiscono la visibilità social agli stessi delicati contenuti di cui trattano. E non è la prima volta che ciò accade.

Con le previsioni, poi, siamo proprio negati. Il fatto che le città desolate e vuote riducano le emissioni e, al contempo, restringano i nostri spazi di libertà non ci porta a considerare che proprio di questo stiamo parlando, da tempo, preoccupati che vada a finire esattamente così. E non per il corona, ma per un virus culturale da cui non vogliamo vaccinarci e temo non sapremmo nemmeno più farlo.

È come se di questa crisi avessimo bisogno, perché sappiamo che molte, troppe cose non funzionano. E però forse dovremmo ripartire da questo episodio per progettare qualcosa di diverso. Per avere consapevolezza del mondo in cui viviamo, di come ci viviamo, di che cosa ci aspetta, domani. E del modo con cui parliamo delle cose che ci riguardano, personalmente e collettivamente.

Strumentalizzare non si può più. Anche perché ormai si strumentalizza soltanto per strumentalizzare, tanto che non ci si ricorda più a che punto abbiamo iniziato a farlo e a che proposito. E non se ne può più di maschere e anche di mascherine.

La situazione è seria. Ci vogliono cose e persone serie che le interpretino. Lo avremo capito?

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