Lo sentite questo silenzio? Tutto è in sordina. Le polemiche, le strumentalizzazioni, il clash di cui avevamo parlato. I rodomonti sono in cortocircuito. Prima si lamentano delle chiusure, poi chiedono di chiudere di più, poi si dicono stupefatti dalla chiusura, poi dicono che non basta. A ciclo continuo. Come i titoli di Libero, che ogni giorno tirano sassate in direzioni diverse, a caratteri cubitali che ribaltano quelli dell’edizione precedente. È tutto bellissimo.
Quando il gioco si fa duro, i duri non hanno niente da dire. Tutti a casa, alè.
E forse abbiamo tempo e spazio e silenzio, appunto, per chiederci: cosa è che conta veramente, quando non possiamo più permetterci le cazzate? Di cosa si parla quando non si possono più sprecare le parole? Su cosa si investe, quando la propaganda non ha più spazio?
Martina Testa lo ha scritto ieri:
Non ho capito perché nella giornata di oggi, stando a un sito istituzionale che ho visto segnalato, condiviso, elogiato da molti sui social network, un mese gratis di Amazon Prime Video è passato da essere una normalissima offerta promozionale a rappresentare un gesto di “solidarietà digitale” (qui).
Piuttosto sarei curiosa di sapere quanti posti letto in terapia intensiva potrebbero finanziare i soldi che Amazon ancora non versa nelle casse dello Stato italiano (tanto per dire: Perché i giganti del web pagano poche tasse in Italia).
Oltre a pretenderle giustamente dall’amministrazione statale e locale, i cittadini non potrebbero richiedere anche ad Amazon, a Google, ad Apple “misure concrete” per sostenere le piccole imprese e le partite iva danneggiate da questa emergenza?
Che so: per ogni acquisto di libro/album/ecc. fatto su Amazon, su GooglePlay Store, su Apple Store nel periodo dell’epidemia, queste aziende si impegnano a versare allo Stato italiano una percentuale del prezzo di copertina per costituire un fondo a supporto dei lavoratori del settore culturale.
In quale mondo questo sarebbe possibile? Non lo so, è che mi sembra un momento in cui è particolarmente lecito provare a immaginare un mondo diverso da quello attuale. Essendo il mondo attuale un mondo in cui non c’è stato l’inverno, in cui non ci si può più baciare e in cui le multinazionali usano un’epidemia per farsi pubblicità.
Ed è una riflessione che dovrebbe riguardarci, anche quando leggiamo di campagne di solidarietà straordinarie che tutti salutano con favore, perché i vip sono buoni, generosi, si mettono nei nostri panni. Sarebbe bello che questa solidarietà fosse automatica, con una maggiore progressività fiscale, argomento di cui parla solo Possibile da anni e che tutti paiono aver abbandonato. E con un’imposizione fiscale sui grandi patrimoni, anche. E sulla successione, pure. Così finanzieremmo sempre scuola, ricerca e sanità e ritroveremmo quel patto sociale che è saltato ormai lustri fa.
Salvare il mondo, ora o mai più, mi scrive un amico: è vero che fa impressione parlare di opportunità mentre ci sono persone che soffrono e che muoiono, ma o si trova il modo di imparare da questo disastro per fare qualcosa di buono, o l’avremo vissuto invano.
Intanto, come è chiaro a chiunque, non si tratta solo di una crisi sanitaria: è economica, è sociale, è democratica, mette in discussione i diritti e i doveri.
Dopo anni a teorizzare che il lavoro senza vincoli valeva bene che fosse anche senza diritti, oggi chi non è tutelato rischia di perdere il lavoro per il semplice fatto di rispettare le disposizioni di legge che chiedono di stare a casa a meno che non sia assolutamente indispensabile fare altrimenti. Licenziati per aver rispettato la legge, oltre che per la crisi, certo: ma se non è un paradosso questo. E di certo chi si ferma è perduto, perché per moltissimi non è garantita alcuna continuità retributiva.
Una società che permette a un lavoratore delle “piattaforme” di esser sfruttato senza mutua, senza permessi, senza possibilità di scollegamento dall’app, rischia oggi di scoprire che è quindi un po’ complicato chiedergli di stare a casa per ragioni di salute pubblica. E così gli operai, gli impiegati, gli autonomi, tutti deboli e senza strumenti per farsi valere.
In secondo luogo, c’è la questione di come le istituzioni si muovono, e con che margine di manovra. Tutte: localissime, nazionali, sovranazionali. L’epidemia è già di suo una risposta, tremenda, al sovranismo becero, e anche a quello non becero, posto che ve ne sia uno. L’Europa, però, un colpo lo deve battere, ne ha già mancati troppi. E deve dimostrare di essere un attore compiutamente politico proprio ora.
Terzo, i frammenti di distopia di oggi dovrebbe farci riflettere sulla distopia grande in cui già viviamo: l’emergenza climatica e ambientale. È evidente che a tutti i livelli, dall’Europa alle singole amministrazioni comunali, non se ne verrà fuori con simboliche prese di posizione e microinterventi che scompaiono di fronte all’enormità dei problemi. Lo dimostra proprio l’epidemia, che creando una crisi inattesa ha immediatamente messo alla corda la nostra capacità di farvi fronte. Ecco, quella climatica non è una crisi inattesa, un patogeno che arriva da chissà dove: serve un piano di investimenti e di riconversione mastodontica, serve un nuovo paradigma.
Quarto, detto letteralmente in soldoni, la nostra società non può essere ostaggio delle speculazioni di pochissimi a discapito di tutti gli altri. Torno agli argomenti da cui siamo partiti qui sopra. Vanno smantellati i paradisi fiscali, che si trovano anche in Europa, girato l’angolo, passato un cavalcavia: a proposito della domanda su dove trovare le risorse che non ci sono. E va reintrodotta una regolamentazione dei mercati finanziari che peraltro già esistevano. Chi lo dice, negli Usa, come Bernie Sanders qui da noi è definito estremista. Per dire il livello.
Spetta alla classe dirigente avere il coraggio di far fare una torsione alla paura che tutti proviamo in queste settimane per fare quello che non si è fatto finora, e che molti dicevano che era meglio non fare. Come si dice, cambiare idea è un segno di intelligenza, specie di fronte all’evidenza. E forse lo status quo, ora che siamo “chiusi dentro”, non ci piace poi così tanto.
Lo scriveva Calvino, più o meno così:
“Vorrei capire.”
“Cosa?”
“Tutto, tutto questo”. Accennai intorno.
“Capirai quando avrai dimenticato quello che capivi prima.”
Ora o mai più.
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