Dove eravamo rimasti? Nello stesso posto. Pare passato un secolo, torna ciò che è rimosso, tutto si annebbia in una sorta di torpore, dettato forse da una necessaria claustrofilia.
Viene in mente quel passaggio di Woody Allen, in quel film, quando gli chiedono quando uscirà di prigione. Lui si mette a contare i giorni della settimana, chiedendosi «che giorno è, oggi?», per poi concludere che sarebbe uscito dopo dieci anni.
Io e anni, insomma. Questa è la trama. Ogni mattina ci si sveglia, ci si dà un tono, ma poi il tono si perde nel corso della giornata. È inevitabile che sia così.
Ciò detto, in quei rari momenti di lucidità che attraversano come lampi queste giornate uggiose – dentro e fuori, perché ha anche ricominciato a fare freddo – ciò che si capisce, l’unico verso slogan possibile, è che «il dopo viene prima».
Ciò significa che tutti dobbiamo muoverci per preparare ciò che verrà dopo, anche se il dopo non si sa quando arriverà. E dobbiamo farlo proprio perché – scusate l’inevitabile ripetizione, ma è la parola del momento – il dopo non si sa quando arriverà.
E quindi bisogna fare prima ciò che verrà dopo. Il credito, per esempio, e la liquidità. E, in generale, il più forte che non ammazza il più debole, ma gli consente di ripartire. E il sostegno, non potrà essere rinviato sine die, perché è già tutto sine die, e ci sono persone che lambivano l’orlo del baratro anche prima della crisi dettata dal virus.
Come mi auguravo, sarebbe stato meglio, per la stessa ragione, chiudere prima ciò che abbiamo chiuso molto dopo e molto tardi. E ciò che continua a rimanere aperto. Per inderogabili ragioni produttive che spesso non lo sono, talmente inderogabili che renderanno derogabili per tutti il momento in cui potremo riaprire.
Come mi auguro ora, aggiungo, sarebbe bello se tutte le tecnologie fossero rivolte al loro uso sociale, a cominciare da ciò che serve alla sanità, a ciò che serve per i nostri movimenti, a ciò che serve per accedere a servizi pubblici altrimenti farraginosi e legati a continue autocertificazioni (non solo quelle necessarie a muoversi, che pure tengono banco anche perché cambiano ogni 48 ore).
Alla politica, a chi riveste ruoli di responsabilità, a ogni livello, vorrei chiedere se ci fanno la cortesia non di improvvisarsi statistici (e non certo statisti!) del giorno per giorno, ma una cosa semplice: dovete farci sapere cosa state facendo, che progetti ci sono per questo, questo, questo, questo e quest’altro. Perché – se questi progetti esistono – dovete dirci “prima” cosa faremo “dopo”. Se invece questi progetti non esistono, è un cazzo di problema perché “dopo” non si potrà più fare quel che andava fatto “prima”, come tutta questa vicenda ci sta insegnando. E la rabbia e la fame prenderanno il sopravvento. E saranno un virus ancora più micidiale.
La polis è deserta, la politica non può esserlo. Non può più esserlo. Abbiamo vissuto per anni di una politica che vive alla giornata, chiusa dentro se stessa. Ecco, ora non si può più.
Lo si vede dal telelavoro e in generale dai pessimi servizi telematici, dall’innovazione che non c’è perché non c’è mai stata, dalla sanità ridotta, dalla ricerca schiantata, dall’agricoltura sostenuta con i mezzi illegali e inumani dello sfruttamento. Dal paese evasivo che ora chiede sostegno allo Stato, proprio quello che non ha finanziato perché era troppo gravoso farlo.
Che questo tempo sospeso – il dopo viene prima, ancora – serva a gestire meglio il tempo di quando ne avremo pochissimo, per via dell’ansia di ripartire, dell’angoscia di non poterlo fare, della preoccupazione che si salvino solo alcuni, da questo disastro che invece riguarda tutti.
«Il dopo viene prima», quindi, e «Il noi viene prima dell’io», se solo lo capissimo, almeno questa volta. Ce lo siamo dimenticati per troppi anni. È il momento che ce ne ricordiamo, tutti e tutti insieme.
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