«Uè, figa, alla grande». Rolling Stone ha vinto tutto, con il titolo dedicato al video di Urbano Cairo.
La pandemia è una grande occasione, in sostanza, dice Cairo.
Lasciate da parte per un momento il fastidio e il ribrezzo – anche – per alcuni passaggi e, ecco, immaginate un discorso motivazionale così, però non cinico. Magari non interrotto dai taaac di Zampetti, appunto. Dedicato non al commercio e al profitto, ma alla nostra società.
Alla tecnologia, alla ricerca, alla scuola, al lavoro intelligente (smart vorrebbe dire quello) come dovrebbe essere intelligente la mobilità, all’ambiente collegato alla salute come punto di assoluta priorità (e non come è stato finora), alla considerazione che siamo tutti sula stessa barca, e che forse dovremmo considerare che tutto ciò che non è “nostro” – come proprietà – è altrettanto importante perché è altrettanto “nostro” – come condizione di tutto il resto.
Ora tutti vogliono che la sanità non sia tagliata (davvero?), chiedono una classe politica consapevole (bella scoperta), servizi avanzati in campo telematico (che siamo ancora alle carte bollate), scelte oculate, previsioni, qualità, costanza. Fare “prima” le cose che altrimenti si fanno “dopo”, “tardi” o non si fanno “mai”. Manca solo che si capisca, tutto d’un colpo, a che cosa servono le tasse. Sarebbe incredibile.
Anche nel nostro linguaggio: comizi e stronzate subito, all’impronta, oppure pensieri lunghi, capacità predittive, cautela e strategia? Non credo avremmo dubbi, però finora abbiamo puntualmente preferito la prima categoria, nella cabina elettorale.
Forse ora che siamo tutti barricati in casa perché dall’altra parte del mondo si è diffuso un virus in una grotta ed è passato all’uomo, il cambiamento climatico non suona più come una storia assurda. E che sia un fatto globale. E che riguardi tutti. E che un batter d’ali di pipistrello possa provocare tutto questo.
E ora che le distopie sono diventate current affairs, beh, forse capiamo che nemmeno Cairo le possa affrontare da solo. Certo, ci si può guadagnare qualcosa, ma il punto sta da un’altra parte. Perché siano animali – ce lo ricorda il virus – e sociali – ce lo ricorda la condizione di queste ore. E ce lo ricorda David Quammen (Spillover, Adelphi), ribadendo «l’antica verità darwiniana»: «siamo davvero una specie animale, legata in modo indissolubile alle altre, nelle nostre origini, nella nostra evoluzione, in salute e in malattia».
Scrive, ancora, Quammen:
Le malattie infettive sono dappertutto. Rappresentano una sorta di collante naturale, che lega un individuo all’altro e una specie all’altra all’interno di quelle complesse reti biofisiche che definiamo ecosistemi. Il meccanismo dell’infezione è uno dei processi fondamentali studiati dagli ecologi, come la predazione, la competizione, la decomposizione e la fotosintesi.
Ecco, è tutta questione di relazione, di rapporti di forza, di collegamenti e di inevitabili condivisioni. Lo sapevamo già, ora lo sappiamo meglio.
Si tratta, in poche parole, non solo di uscire di casa, ma di uscire dalla grotta. Qualcuno lo disse che le ombre che vedi riflesse sulle pareti di una caverna non sono la verità…
È tempo.
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