È quasi provocatorio leggere un libro dedicato al ciclismo mentre si è chiusi in casa, fermi al palo, proprio come le nostre bici. E lo è immaginare paesaggi, la folla ai lati della strada, i corridori che si passano la borraccia, che corrono l’uno accanto all’altro.

E anche se i grafici del virus assomigliano al profilo altimetrico delle tappe del Tour de France, con i picchi, i plateau, i falsipiani, i saliscendi (anche emotivi), è quasi un sogno leggere Acqua passata.

E però la squadra di Bidon, appunto, ci fa sognare.

Perché ci sono proprio gli ingredienti che ci mancano, oltre alla corsa e all’avventura: la borraccia, il gregario, il passaggio di testimone sostanziale e sostanzioso, il campione e però la squadra.

Titolo e autore coincidono, in questo libro, perché «bidon» è la borraccia. Non è veneto come penserebbe Pojana, è francese, ma è anche un po’ esperanto, perché la parola è universale.

La storia delle borracce inizia al Tour del 1910, in seguito all’incidente occorso a Jean-Baptiste Camdessoucens, un personaggio molto particolare, peraltro. Le bottiglie di vetro potevano tagliare. Brutta scoperta. E allora nasce la storia della borraccia, come oggetto e come formula, potremmo dire.

Henri Desgranges, ideatore e primo patron del Tour de France, bandì l’utilizzo in gara di bottiglie di vetro, inaugurando di fatto l’era delle meno pericolose borracce. Le prime comparvero nel corso di quello stesso Tour: erano contenitori in latta stagnata, con mezzo litro di capacità, chiuse con un tappo di sughero. Il sacchetto in tessuto prese a essere sostituito da gabbiette metalliche ancorate al manubrio, in una posizione talmente esposta e visibile che le prime richieste di sponsorizzazione non tardarono ad arrivare.

C’è l’oggetto e anche il soggetto: i portaborracce. Dice Bidon:

E che invenzione meravigliosa furono i portaborracce, gli uomini-dromedario che si caricano di liquidi lungo gli stradoni di città e le viuzze di campagna, ovunque passi una corsa di biciclette, con il solo scopo di rendersi utili. Anello di congiunzione tra l’ordinarietà del pedalatore e l’eccezionalità del campione, i trasportatori di borracce sono tedofori in bicicletta o, forse, dei Prometeo rovesciati, distributori d’acqua anziché di fuoco. È grazie a loro che la borraccia smette di essere oggetto e si fa concetto, si carica di significato in tutte le lingue in cui venga evocata.

Ci sono le storie, le interviste, i racconti che non sarebbero dispiaciuti a Gianni Mura, a cui People dedica questa pubblicazione. E ci sono anche le contraddizioni di un mondo che è presto passato dalle borracce di Pernod di Anquetil a borracce più piccole, furtive e proibite, che fanno parte di questa storia, fino ai massimi livelli.

Quando torneremo a pedalare, superando muri di Sormano e passi dolomitici, sarà un bel giorno. Nell’attesa una lettura ci può aiutare. Passatevi di mano questo libro come fosse una borraccia, la borraccia dell’attesa.

(La foto è di Leonardo Piccione che vive in Islanda e ci racconta che la parola islandese bíða – che non ha relazioni etimologiche con bidon, ma una curiosa assonanza – significa proprio aspettare)

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