Negli ultimi giorni si sta facendo strada, presso medici e scienziati, l’idea che il virus stia mutando. Che stia diventando meno aggressivo. Da un po’ di tempo ne scrivo anche su queste pagine, nei momenti di maggiore ottimismo, soprattutto.
È ancora tutto da dimostrare, se fosse vero sarebbe davvero un’ottima notizia che, però, contiene in sé un curioso paradosso. Non eravamo noi a dover cambiare? A essere costretti da questa assurda storia a diventare addirittura migliori? E invece cambia il virus ma noi no. Servivano forza e coraggio ma il decreto aprile che arriva forse a maggio sarà con ogni probabilità la solita storia, così almeno dicono i più avveduti tra coloro che siedono ai vertici delle nostre istituzioni.
Soldi a pioggia per cercare di accontentare tutti, scontentando ognuno solo un po’. Niente investimenti, niente scelte, nessun progetto per ripensare un Paese che era già allo stremo prima dell’inizio del pandemonio.
L’indecenza del dibattito sulla regolarizzazione dei migranti: quelli contro perché sono contro, sulla base di argomenti infondati e razzisti, quelli a favore ma che si affrettano a spiegare che lo sono solo perché hanno bisogno di manodopera. La Repubblica fondata sul lavoro, proprio.
Con Marco Tiberi ci siamo detti che la claustrofobia si patisce di più ora, rispetto alla stessa blindatura di porte e finestre dei due mesi precedenti. È la mancanza di prospettive a scoraggiare. L’unico piano è non averne, di piani (la frase, antica, è stata recentemente ripresa dal padre di famiglia in Parasite, mi pare un riferimento pertinente).
Il Paese così non si apre, si chiude su se stesso.
E come se niente fosse abbiamo già ripreso a parlare del niente, come dimostra la furiosa polemica sui Navigli, mentre i disastri lombardi e le responsabilità e le cause e le ragioni e i torti soprattutto sono da tutt’altra parte.
Nelle Rsa, nelle strutture sanitarie, sui luoghi di lavoro, come emerge dalle prime stime in cui finalmente ci sono offerti i dati in modo leggermente più selettivo dello zibaldone (o, alla Guzzanti, zabaione) con cui ci sono stati forniti finora – questa inciviltà dei dati a conguaglio, dei tamponi confermativi fatti per trovare guariti, delle discese ardite e le risalite dei grafici ogni giorno in molte regioni, deve finire.
La locomotiva d’Italia si conferma tale anche in queste ore per decessi e contagi e nuovi positivi. In ogni disciplina, per dire così. La locomotiva sul binario morto.
Spingitori di virus. E le birrette non c’entrano, spero sia chiaro a tutti. E la nemesi dell’aperitivo che ritorna, dopo gli infausti episodi di due mesi fa, è solo un trucco, di quart’ordine.
Scriveva ieri Paolo Cosseddu:
«Se c’era gente che affollava i Navigli senza le dovute distanze e protezioni bastavano i ghisa, non serviva il predicozzo del sindèch, soprattutto perché manca tutto il resto (tamponi, app e compagnia), soprattutto perché per come è andata in Lombardia dovrebbero essere gli ultimi a riaprire invece di scalmanarsi per essere i primi, e infine soprattutto perché non è il momento, perché ne abbiamo già tutti due palle grosse come la mela di Pistoletto in Centrale, ci manca solo che Sala ci sgridi perché oltre a “lavorare, lavorare, lavorare” pretendiamo pure di rilassarci un po’, ché altrimenti rischiamo che ai Navigli i milanesi ci vadano lo stesso, ma per buttarsi nella Martesana con una pietra al collo».
Cerchiamo i locomotivi di questa situazione, non le stronzate, insomma.
Un giorno poi capiremo anche che lavorare senza vivere non è possibile, come dimostra la scarsa produttività che dichiarano molti professionisti che potevano benissimo lavorare durante la clausura ma hanno fatto una grandissima fatica a concludere qualcosa.
Quando lo capiremo, al solito, sarà troppo tardi.
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