Come sapete mi auguro che la politica ritrovi un antico orologio, proprio quello che ha perduto, inseguendo l’attimo. Anzi, il presente. Un orologio speciale, con le lancette che non segnano più i minuti, i secondi, finanche i centesimi, no. Le lancette di quell’orologio perduto segnano i mesi, gli anni, i decenni. E invita a sostituire la campagna elettorale permanente del presente con una campagna politica lunga e paziente che quella elettorale la sospenda, con un voto riflessivo, che valga anche per le prossime cinque, dieci elezioni.
Erano gli anni della Seconda Guerra Mondiale. Precisamente il 1944. E T.S. Eliot pronuncia un discorso celeberrimo What is a Classic?, dedicato in particolare a Virgilio e all’Eneide. Nella parte finale affronta il tema del provincialismo. Con parole chiarissime, riprese recentemente da Maurizio Bettini (A che servono i Greci e i Romani? L’Italia e la cultura umanistica, Einaudi, Torino 2017, p. 52) e prima ancora, tra gli altri, da Ryszard Kapuściński (In viaggio con Erodoto, Feltrinelli, Milano 2005 e 2019, pp. 259–260).
«Allo stesso modo che una volta avevo desiderato varcare le frontiere del spazio, adesso mi affascinava varcare le frontiere del tempo [il corsivo è suo]», scrive Kapuściński. Che spiega così:
Temevo di cadere nella trappola del provincialismo. Quello del provincialismo è un concetto che siamo abituati ad associare allo spazio. Provinciale è colui che pensa nei termini di un ambiente ristretto e marginale, al quale attribuisce un significato universale. T.S. Eliot ci mette in guardia contro un altro tipo di provincialismo, quello del tempo. «Nell’epoca nostra» scrive nel saggio su Virgilio nel 1944 «quando gli uomini sembrano essere più portati a confondere la saggezza con la dottrina e la dottrina con l’informazione, e a cercar di risolvere i problemi della vita in termini d’ingegneria, sta sviluppandosi una nuova forma di provincialismo che forse merita anch’esso un nome nuovo. È un provincialismo non di spazio, ma di tempo: per cui la storia non è che la cronaca delle invenzioni umane via via superate e messe da parte, e il mondo proprietà esclusiva dei vivi, una proprietà di cui i morti non possiedono azioni. La minaccia che si annida in questa sorta di provincialismo è che possiamo diventare tutti provinciali – tutti insieme i poli del globo; e a coloro che non vogliono essere provinciali non resterà che farsi eremiti.» Esistono quindi i provinciali dello spazio e i provinciali del tempo. Basta un mappamondo, per dimostrare ai primi quanto siano ciechi e fuorviati dal loro provincialismo; basta una pagina di storia, comprese le Storie di Erodoto, per dimostrare ai secondi che il presente è sempre esistito. La storia è un ininterrotto succedersi di presenti e, per la gente di allora, le storie più antiche erano quelle che sentivano più attuali e vicine.
Ciò vale per il passato ma certamente anche per il futuro. Soprattutto, direi, per il futuro. E allora queste pagine mi hanno fatto tornare alla mente una lezione che avevo ascoltato a Barcellona, credo fosse l’autunno del 2018. A parlare era Daniel Innerrarity, che – di fronte alla crisi della democrazia – ne offriva una versione per così dire “aumentata”. Per dare il voto ai futuri, ai prossimi e al contempo a chi non può esprimerlo, quel voto, perché non vive in una democrazia e però del nostro voto subisce puntualmente le conseguenze. «Noi dimentichiamo i diritti delle future generazioni«, ha ricordato Inerrarity in più di un’occasione. «I cittadini attuali hanno un diritto di voto di cui non possono godere i cittadini futuri». Innerarity insiste: «Da un punto di vista culturale, nella logica del consumo, in relazione con l’ambiente [e con il clima, aggiungo io], otteniamo un imperialismo che non è soltanto spaziale ma anche cronologico, del tempo presente, che lo colonizza interamente. C’è una colonizzazione del futuro che consiste nel vivere a sue spese».
Il futuro negato dal presentiamo, quindi, è formato dal presentismo. Annegato, potremmo dire, pensando proprio al clima.
Ancora Innerarity: «La rappresentazione elettorale non permette di farsi carico dei problemi transfrontalieri o distanti nel tempo, né a quelli relativi al clima; abbiamo bisogno di un altro tipo di democrazia, che potremmo chiamare democrazia post-elettorale, ma potremmo parlare anche di un ampliamento del parlamentarismo, di democrazia inclusiva, transdemocrazia, interdemocrazia o democrazia ecologica».
E facendo il giro, in questo caso un vero e proprio giro del mondo, quindi, quando si vota non si deve pensare al provincialismo del tempo e dello spazio. Tutt’altro. Non si deve pensare a se stessi, perché se si nega la visione d’insieme si perde anche se stessi. E per fare la transdemocrazia di Innerarity ci vuole una transpolitica che sappia interpretarla, conformarsi ad essa, prepararne il cammino.
Perché dobbiamo votare pensando alle complessità globali, al tempo futuro. Se preferiti, alle nostre figlie e ai nostri nipoti. È cultura, questa. Appunto. E tradizione, anche.
E quindi votare per i prossimi sedici anni, anche di più, più che per i sedicenni – che se ne parla almeno da sedici anni, peraltro, e ora sono al governo tutti quelli che ne hanno finora parlato (e scusate il calembour).
Andremo a votare nel 2023 o forse nel 2022. Prepariamoci a farlo pensando che si vota per queste elezioni e anche per le prossime dieci tornate.
Scegliamo chi il problema se lo pone. Chi rinuncia al colpo d’effetto che dura mezza giornata per affrontare strategie che durino mezzo secolo. Lo so che è difficile e controintuitivo ma tutti i nostri problemi nascono da qui. E il suffragio universale che rivendichiamo – confrontandolo con quello parziale dei Greci, guardandoli dall’alto in basso – va reso davvero universale. Il tema è lo stesso di allora, perché comporta la liberazione dalla schiavitù di miliardi di persone, se immaginiamo il mondo come una grande comunità, come una polis senza confini (lo so che i grecisti trasecoleranno, ma voglio appunto tra-secolare). Suffragio universale: in questo caso l’aggettivo è un preciso obiettivo politico, sempre in corso d’opera e di realizzazione.
Soltanto se qualcuno se ne renderà conto e se ne farà carico, ce la faremo.
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