Mi scrivono. Pensare con poche forze di cambiare il mondo. Di sovvertire gli equilibri. Di imporre un modo di ragionare diverso.
È vero, lo sono, lo siamo.
Ma – la butto lì, senza presunzione – se ancor più presuntuosi eppur condizionati eppur vittime di una strana sindrome coloro che continuano a fare le stesse cose con lo stesso linguaggio e le stesse parole e le stesse ‘cose’ e le stesse persone e le stesse alleanze e gli stessi protagonisti e la stessa “ricetta”?
Non è presunzione, quella? Di dirsi di sinistra ma solo a parole, come quei versi di Caetano Veloso: «Fala que me ama. Só que é da boca pra fora» e di tenere in ostaggio, in un eterno presente, in un centro tolemaico tutta la politica progressista italiana (e ahinoi europea)?
Parlare di cambiamento, senza cambiare mai, non è supremamente presuntuoso?
E chiedere puntualmente il voto utile non rinvia a un utile diverso, per pochi intimi e potenti?
A volte me lo chiedo, perché certo io perdo, anche nella gara della presunzione.
Mi chiedo se quelli che la vincono poi si guardino allo specchio. E riescano a guardare oltre se stessi.
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