Se, come me, siete colpiti dal «terrible moscardón del aburrimiento», il terribile moscone della noia (per rimanere in tema entomologico), mollate quello che state facendo e precipitatevi in libreria. Ad attendervi, grazie ad Adelphi, c’è il preziosissimo Gioco e teoria del duende di Federico García Lorca. Il duende per sua natura si sottrae alla definizione e Lorca – forse affidandosi al duende stesso – si mette alla prova per cercare di descriverlo. Il suo arrivo «presuppone sempre un cambiamento radicale di tutte le forme. Ai vecchi schemi dà sensazione di freschezza completamente inedite, con una qualità di cosa appena creata, di miracolo, che giunge a generare un entusiasmo quasi religioso». «Discendente di quell’allegrissimo demone di Socrate» e del «malinconico diavoletto di Cartesio», il duende rappresenta la forza profonda, interiore (di più, intima) che fa segno allo spirito della terra, che ha perciò più di un legame con l’oscurità della morte, che esplode nelle arti, in particolare nella musica e nella danza. Un duende che è «padrone di casa» (questa la sua etimologia), dentro di noi, come lo sono i folletti che popolano le dimore magiche (o stregate). Ed è nel terribile gioco della corrida che il duende si manifesta con maggiore precisione e «assume gli accenti più impressionanti», e, proprio perché si lotta con la morte, «nel momento di uccidere, occorre l’aiuto del duende per colpire nel segno della verità artistica». Il duende è, quindi, unico: «el duende no se repite, como no se repiten las formas del mar en la borrasca». Ora, ne sono certo, siete già in libreria.
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