Everyman di Philip Roth è un libro duro, fin dalla copertina che Einaudi propone ai lettori. Ed è un libro ‘nero’, fin dalle sue primissime righe: quell’incipit «intorno alla fossa» lascia davvero poco spazio ad equivoci. Ambientato ben al di là del tempo in cui «la giovinezza impallidisce», come vuole il Keats dell’epigrafe, è un libro dedicato al tempo che passa, anzi al tempo che è già passato. Quel nulla, che è insieme la vita e la morte, è sempre presente, anche nella tensione verso di esso, della malattia, della decadenza, della trasformazione di sé irreversibile, descritta implacabilmente e senza consolazione, operazione dopo operazione, incidente dopo incidente. Che Roth fosse spietato, lo sapevamo da tempo e – non si può negarlo – è la spietatezza una delle sue corde migliori. Ora però, dopo avere indagato ne L’animale morente una gelosia senile e tardiva e perciò ancor più ossessiva, Roth descrive quello che l’uomo non è più, con il protagonista alle prese con un ricordo impossibile e mai soddisfacente dei momenti salienti della propria vita, dell’infanzia dorata, dei suoi successi e dei suoi amori e dei suoi tradimenti verso il giudizio più implacabile: di non essere quello che avrebbe voluto, una constatazione senz’appello e senza redenzione. Ritrovandosi così nel nulla, senza nemmeno essersene reso conto.

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