Le leggi diluviavano.
Per una lettura manzoniana dell’affaire Cascinazza
Da tempo, tra una conferenza e un volantino, un dossier e finalmente un documentario, m’interrogo sulle sinistre corrispondenze tra la vicenda della Cascinazza e il racconto manzoniano. Non solo, e banalmente, perché i bravi consiglieri comunali della destra ripetono continuamente che il nuovo Piano di governo del territorio di Monza «non s’ha da fare, né domani, né mai»; ma anche per il clima da Azzecca-garbugli che da sempre avvolge la vicenda, tra contenziosi e sentenze, ordinanze e sospensive che si faticano a comprendere e sono, per il politico, difficili da illustrare alla cittadinanza, per via di tecnicismi e formule oscure che ne rendono impossibile la comprensibilità: un vero e proprio latinorum, a metà tra l’‘avvocatesco’ e l’‘urbanistico’. E, ancora, il continuo legiferare regionale (viene in mente il Manzoni che dice dell’epoca di cui narra che non v’era penuria di provvedimenti, perché «le leggi anzi diluviavano»), un legiferare che non mira però ad ordinare, ma a confondere, non ad aiutare, ma ad ostacolare, come se le leggi urbanistiche della Regione avessero il sapore antico e un po’ amaro di quelle gride che i governatori (guarda caso) così generosamente inviavano alla popolazione. Ora non vi sono più la retorica e le espressioni ridondanti: per mettere in discussione la sovranità delle comunità locali, sono sufficienti articoli e commi, qualche delibera e tutt’al più qualche riga di una legge regionale. Anzi, di una leggina, con quel diminutivo che ci dice molto circa la statura dei provvedimenti che stiamo discutendo.
E c’è anche, a ben guardare, la pioggia: se nell’accezione manzoniana purificava, qui invece ingrossa il fiume e le polemiche.
Altre notazioni di carattere più letterale vengono alla mente. Da una parte, il castello dell’Innominato, collocato dal Manzoni «a cavaliere a una valle angusta e uggiosa», luogo del mistero e del potere (e della conversione, ma qui il parallelo cade…). Dall’altra, la villa di Arcore (non a cavaliere, ma del cavaliere), dove tutti vanno in processione, accompagnati dai fidi caudatari, per discutere le scelte della destra monzese e avere la benedizione del signore, in una catena feudale in cui il capo si pregia di «aver la mano da coloro» che sono «soliti averla dagli altri». E, ancora, il corso del fiume («rigagnolo o torrentaccio, secondo la stagione») che non passa molto lontano da essa (e ancor più vicino alla magione di Macherio), e che collega la Villa ben più che idealmente al pratone dove «a cavaliere» troviamo l’edificio della Cascinazza. Lo stesso si può dire del Resegone, che, quando si guarda la cascina, si vede sullo sfondo, a suggello del tratto inconfondibilmente lombardo del paesaggio e della vicenda: è lo stesso Resegone, facilmente riconoscibile «in quella lunga e vasta giogaia, dagli altri monti di nome più oscuro e di forma più comune», al quale si voltava con nostalgia Renzo procedendo a piedi verso Milano, a cui faceva da contraltare, nella direzione opposta, il Duomo di Milano, che ora – più prosaicamente e pensando alle cose che ci riguardano – possiamo sostituire con il Pirellone.
Ci sono, infine, due o tre punti di contatto di grande significato, dal punto di vista culturale e, se si vuole, politico. Il primo, è collegato alla vicenda di una piccola comunità che subisce le prevaricazioni dei potenti e i condizionamenti del quadro politico più generale (e del momento storico, per noi, oggi, rappresentato da una sorta di colpo di coda del berlusconismo), alla luce della volontà di un potere lontano, che «copre» interessi e urgenze particolari. «Conflitto di interessi», si dice con terminologia attuale, ma non è cosa troppo diversa, a ben guardare, dalle vicende romanzate nella Lombardia sotto il dominio degli spagnoli, così come lo è la possibilità di influire direttamente nelle decisioni, cambiando la legge quando essa non pare adatta a risolvere il problema particolare.
E non può non essere richiamato il concetto di violenza (quella violenza privata che fa da nota di sottofondo a tutta la vicenda del romanzo), tema più volte frequentato dal Manzoni, che ora ritroviamo in una forma sublimata e tutta istituzionale. Una violenza in doppio petto che si inserisce perfettamente nel clima che ancora oggi consente a «ognuna di queste piccole oligarchie» di avere «una sua forza speciale e propria».
E la vicenda della Cascinazza sembra così una di quelle storie minori su cui il Manzoni si sofferma e con cui arricchisce la narrazione, per descrivere lo spirito del tempo e il contesto sociale e politico sul quale le vicende dei protagonisti vengono proiettate.
Con la legge regionale di quest’anno (che segue ad analoga prevaricazione dell’anno precedente e per semplicità si chiama legge 12/2006, quando quella precedente era la legge 12/2005) siamo tornati al piano regolatore del 1971 – lo abbiamo spesso ricordato – perché sono state cancellate le salvaguardie dello strumento urbanistico adottato recentemente. Con il pensiero, però, corriamo, seguendo le note manzoniane, a tempi più antichi. E torniamo all’inizio di novembre. Del 1628. Poco importa, a lorsignori, che Monza sia «un antico e nobile borgo», ma a noi importa eccome: se Formigoni pare esserselo dimenticato, ce lo ricorda il Manzoni.
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