Mettere in sicurezza, aggiustare, correggere. La solita analisi del dopo primarie all’interno di un Pd in vistosa ritirata, a cui contribuiscono i suoi massimi dirigenti.
Il paradosso è il solito: il gruppo dirigente commette errori grandi e piccoli che lo portano a ‘perdere’ (virgolette essenziali) le primarie e poi, avendole ‘perse’, mette in discussione le primarie, per poter tornare a scegliere in solitudine. E sembra quasi che lo si faccia apposta, di ‘perdere’.
Un circolo vizioso alla perfezione.
Era successo lo stesso con Pisapia, ricordate?
A nessuno viene il dubbio che il problema di Genova fosse, in particolare, il giudizio sulla candidatura del sindaco uscente che il Pd non aveva saputo elaborare, prima di tutto al proprio interno e all’interno del proprio gruppo dirigente?
E se si fossero messi d’accordo prima, chi può dire che Doria, che ha doppiato i candidati del Pd, non avrebbe vinto lo stesso? A Milano c’era un solo candidato del Pd, che ha perso. Anche a Cagliari, dove acerrimi nemici si strinsero intorno alla candidatura di Cabras. Lì, le aggiustatine, caro segretario, a chi le avremmo dovute dare?
E, ancora, a Piacenza, chi avrebbe dovuto “aggiustare” il dissidio tra l’area del sindaco uscente e la maggioranza del gruppo dirigente? Se non gli elettori, lo avrebbe dovuto fare un gruppo dirigente dichiaratamente diviso. E a Parma, dove l’assemblea cittadina si era divisa a metà, chi avrebbe dovuto mettere in sicurezza il dibattito interno? Chi lo capisce, è bravo.
Lo Statuto già prevede dei limiti alle seconde candidature del Pd, che devono essere largamente rappresentative e sostenute all’interno dei gruppi dirigenti del Pd. Facciamo rispettare questa regola di buon senso e smettiamola, una buona volta, di fare le doparie (non nel senso delle consultazioni proposte da Calabretta, che per altro non facciamo mai, ma nel senso del dibattito dopo le primarie).
Abbiamo deciso di far scegliere agli elettori, e di estendere la scelta a tutte le forze della coalizione perché il Pd di Veltroni non ci piaceva più. Ecco. E abbiamo addirittura preso l’impegno, coram populo, di fare le primarie per scegliere i parlamentari.
Se abbiamo riflessioni da fare, dedichiamole piuttosto ad un’analisi accurata del voto delle grandi città, dove tendono ad affermarsi candidati capaci di rompere lo schema, di aprire un rapporto diverso con la cittadinanza, di mettere in discussione chi è al governo, di lanciare offensive sul piano culturale e, sì, anche generazionale.
E poi diciamocela tutta: nell’Italia della cosiddetta antipolitica (di cui parliamo a sproposito tutto il santo giorno, senza mai ragionare sulle cause che hanno portato a tale e tanta disaffezione verso i partiti), è possibile (bella scoperta!) che vinca un outsider. Soprattutto se gli insider non sanno bene che cosa fare e non riescono a convincere nemmeno gli elettori (e a volte i colleghi dirigenti) del proprio partito. Oppure crediamo davvero che Sel o altre formazioni del centrosinistra dispongano di più voti del Pd alle primarie, per poi perderli quasi tutti durante la campagna elettorale? Suvvia.
Il problema da porsi, in sintesi, non riguarda le primarie, ma la politica del nostro partito: ed è quello del rapporto tra le gerarchie e le loro dinamiche, da una parte, e gli elettori e le loro sensibilità, dall’altra. In una parola: rappresentanza. Tutto qui. E scusate se è poco.
P.S.: per concludere, ogni storia è diversa, e come tale andrebbe valutata. Anche Vendola era un uscente, per dire. E pretendemmo di cambiarlo. E sappiamo come è andata a finire. E qualcuno avrebbe voluto candidare Chiamparino al posto di Bresso. Ma si candidò l’uscente. Senza primarie. Poi siamo stati sfortunati, com’è noto, alle elezioni. Capita.
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