Avrete visto tutti L’arte di vincere, il film in cui Brad Pitt cambia la storia del baseball (anzi, non è esattamente così, ma se non avete visto il film, ve lo consiglio caldamente).
Bene, in quel film c’è la storia della sabermetrica e di un modo diverso di valutare i giocatori e le loro statistiche: i dati, insomma, di un gioco che è un po’ unfair (così recita il sottotitolo del libro da cui è tratto).
Ecco, ho provato – per scherzo, ma solo fino ad un certo punto – ad applicare questo modo diverso di leggere i dati, i punteggi e le azioni, alle elezioni e, in particolare, alle preferenze. Deformazione professionale, direte voi: e avete ragione. Solo che è interessante ragionare sulle modalità con cui spesso organizziamo le campagne elettorali, e sulle cose da fare per vincerle (o cercare di farlo).
E, allora, un consiglio è quello di dedicarsi a un lavoro capillare, lasciando da parte i riti della politica. Le grandi manifestazioni che si autoriferiscono a se stesse medesime autoreferenziandosi, di cui parlò il candidato ideale, Luca Mangoni, qualche mese fa, commentando la vittoria di Milano (con una sorta di trattato perfetto sulle campagne elettorali).
Per lo stesso motivo, è il caso di evitare la concorrenza all’interno del proprio partito o di uccidere il vicino di lista per andare sui giornali, vendendo l’anima per un titolo. Si perde un sacco di tempo, e alla prospettiva della vittoria si sostituisce la prospettiva dell’entropia. E sono tutte cose che non portano preferenze, al massimo le ‘confermano’.
Ciò che serve è provare a cambiare prospettiva.
Per prima cosa, sarebbe il caso, come si sta cercando di fare nella mia città, di dividere il territorio seggio per seggio, individuando un referente o un gruppo di lavoro per ogni seggio elettorale, in un percorso costante, dall’inizio alla fine della campagna elettorale. Un lavoro il più possibile scientifico e misurabile, all’insegna della più ampia diffusione del messaggio elettorale e della ‘copertura’ di tutta la città. Sembra banale, ma questo lavoro si fa raramente, perdendo di vista il famoso radicamento territoriale che spesso è citato in modo mitologico.
Il secondo consiglio è di puntare non solo sui grandi nomi della campagna, su quelli che prendono tante preferenze, ma a un lavoro che riguardi tutte e tutti i candidati, perché in molti riescano a fare un risultato interessante in termini di preferenze (e quindi di voti alla lista). Troppe volte capita che siano solo i più votati a essere votati (tautologie elettorali), e che tutti gli altri raccolgano pochissimi suffragi. E questo non è un bene per il risultato finale della lista.
Da ultimo, è consigliabilissimo concentrarsi sul porta a porta, sul citofono più che sul telefono, cercando di allargare la propria cerchia di amici. Come si farebbe su Facebook (anzi, di Google+), ma nel salotto di casa. Assicurando un rapporto lungo come una legislatura alle persone a cui chiediamo il voto. Lasciando loro il proprio ‘materiale’, senza esagerare, sia dal punto di vista dei costi, sia dal punto di vista dei numeri. Pochissimi hanno la possibilità di rivolgersi a tutta la città – solo le persone già note, solo i politici più famosi e riconosciuti -, e soprattutto per chi inizia è meglio rivolgersi ai cittadini, a uno a uno, di persona, personalmente.
Ci sono, insomma, numeri e azioni che contano molto più di altre, anche se spesso sono sottovalutati o, comunque, poco considerati. E che possono cambiare il risultato elettorale. A volte di poco, siamo d’accordo, ma a volto è di poco che si vince. O si perde.
[A filo d’erba, libera traduzione di Grassroots: le puntate precedenti]
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