Ormai più di un anno fa partimmo con il lavoro di denuncia del fiume in piena delle contraddizioni della Lega: dalle posizioni su acqua e nucleare alle quote latte, dalla cementificazione del «sacro suolo» ai doppi incarichi, dai proclami per il federalismo ai tagli per i Comuni, dalla legalità pretesa da tutti (ma non dagli alleati di governo) allo scudo fiscale.
Allora era un genere letterario poco frequentato, quasi esclusivo, perché la Lega piaceva, anche a sinistra. Piaceva perché vinceva, piaceva perché era «radicata», piaceva perché stava sul «territorio», piaceva perché era riconoscibile e perché condizionava le scelte del governo.
Ora, invece, mentre Bossi sfodera lo spadone in uno dei suoi improbabili comizi estivi (spadone che alterna ormai quotidianamente al dito medio, tanto che le due cose ormai si confondono) sono gli stessi amministratori della Lega a rivolgerlo, lo spadone, verso il governo nazionale. Guidato dalla Lega. E sostenuto dai molti sindaci della Lega che sono anche parlamentari, per via dei doppi incarichi che a quelle latitudini sono una consuetudine tradizionale (deve essere un'usanza celtica): perché, vale la pena di ricordarlo oggi, più di un terzo dei parlamentari leghisti è anche amministratore locale (da Varese a Lampedusa).
Sindaci e presidenti che protestano, con veemenza, contro se stessi, dal Cadore al Varesotto. E che non sanno più che pesci pigliare. E in questo caso non c'è Trota che tenga perché, nonostante le intemerate e le provocazioni sempre più fini a se stesse, anche la piccola mitologia leghista non sorprende più nessuno.
Il compito delle forze democratiche, a questo punto, è provare a dare rappresentanza a quel «rancore» che ha caratterizzato il Nord in questi anni. Un rancore che non va assunto come tale perché, lo abbiamo visto, produce soltanto dell'altro risentimento, senza alcuna concretezza (come abbiamo visto, in questi anni, gli anni della concretezza proclamata a ogni passo e puntualmente disattesa). Un rancore che non va blandito e rilanciato, perché non produce nulla di buono. E non fa altro che alimentare se stesso.
Ci vuole un progetto politico, che sappia dare risposte e una misura alle parole e alle cose. E una visione di società, che non può essere soltanto quella del provincialismo, della chiusura, della rivendicazione e della volgarità. Ci vuole un'idea di Paese, che affronti con la stessa nettezza le questioni decisive che sono state poste in questi anni.
Perché le risposte erano sbagliate, ma le domande sono ancora tutte lì. Vanno evase. Le domande, mi raccomando.
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