Non che non mi piacciano i castelli, anzi. E le torri merlate. E il Baradello, per dire, che domina Como. O i torrioni. O le torri, proprio, quelle che si vedano a Bergamo, dall’autostrada, o che si ammirano a Lucca, che ci sono pure gli alberi sopra.

Non che non ami quei profili medievali, che si scorgono in ogni parte d’Italia e che ne qualificano il paesaggio (nonostante ville e villette e villule e villoni ripieni, come scriveva Gadda, facciano capolino dappertutto).

Da quando sono stato a Cittadella, però, dove il sindaco aveva spiegato – nel corso di una puntata di Anno Zero a cui avevo avuto il piacere di partecipare – che ci volevano 18 anni di residenza (!) per avere più punteggio per le case popolari, mi è tornato il pensiero delle mura, in un altro senso.

Mi ricordavo quella puntata incredibile, in cui c’erano Matteo e Debora, con me, e il sindaco di Adro, dall’altra.

Lo sapevo, molto bene, e ne avevamo scritto qui, documentando, prima che diventasse un genere letterario, il fiume in piena delle contraddizioni della Lega.

Però, parcheggiando, l’altro giorno, mi ha colpito la cinta muraria. Di Cittadella. E le parole del vice di Bitonci, che si candida con una lista con Bossi che campeggia ancora sul simbolo (non hanno fatto in tempo a stamparne di nuovi, evidentemente) e che sostiene che sono loro, gli amministratori, a scegliere chi può vivere in città e chi no. E la nostra candidata, Serenella Vallotto, che aveva parole ragionevoli, e di apertura, dall’altra parte. Che guardava fuori, anche. E non solo dentro.

Poi sono stato a Gerenzano, in provincia di Varese, dove la giunta comunale ‘consigliava’ di non concedere i «muri» agli stranieri, negando loro l’affitto.

Infine sono arrivato ad Asti, dove il nostro candidato sindaco, Fabrizio Brignolo, diceva di non chiudersi dentro le mura della città, perché la città così andava spegnendosi. E che il localismo è il male dei centri piccoli e medi (proprio come di solito si sogliono definire le nostre imprese). E che c’è piuttosto bisogno di «relazioni». E ne abbiamo parlato tutta sera. Pensando ai ponti (levatoi?) da costruire – in senso metaforico e però intensamente politico – tra la provincia e la metropoli, guardando a Expo e non solo.

Ecco, le mura. Che a furia di irrobustirle, ci siamo chiusi dentro. E non troviamo più un modo che sia uno per uscirne. E forse è già troppo tardi.

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