Repubblica traduce in italiano l’articolo di Thomas L. Friedman che ha già fatto il giro del mondo e lo pubblica in prima pagina.
Lo slogan è, come già nel post precedente, dal basso, verso l’alto. E verso l’altro.
Qualche annotazione:
– il leader senza follower non esisterebbe e non esisterebbe se non fosse in rapporto dialettico con loro;
– i follower negano al leader la privacy? Ai politico la privacy è negata da sempre, ed è (tutto sommato) giusto che sia così;
– i follower sollecitano risposte? Doveroso e democratico;
– i leader devono raccontare la ‘verità’? Di più, devono spiegarla, discuterne, precisare le questioni, indagare ciò che non conoscono e condividere con i propri elettori ciò che pensano di conoscere (che poi magari non è vero, ma i follower aiutano, altro che storie);
– questione di fiducia? Proprio così, ed è alla base del rapporto democratico (e della sua crisi).
Da ultimo: il leader deve essere follower? Certamente sì, ma deve aggiungere una cosa, e qui sta la sua funzione trascendentale (termine tecnico): deve saper organizzare il dibattito, incardinarlo intorno a principi e obiettivi, senza rigidità ma senza nemmeno concedere troppo spazio al qualunquismo. Perché poi la politica è prendere decisioni. Se lo si fa in tanti, e sulla base di tanti stimoli e indicazioni, è meglio.
E sulla base di queste decisioni, il leader deve muoversi con i follower verso un’azione politica comprensibile: anzi, nitida.
Perché la politica è contenuto e relazione, e le due cose non si dovrebbero mai separare, se si vuole davvero passare all’«azione».
Toglietemi tutto, insomma, ma non il mio Twitter.
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