Ci passo spesso da quella stazione, che è un po’ la stazione per chi si muove in Italia. Un posto dove si cambia direzione. Uno scambio.
Quando penserò a questi anni, non potrò non andare con la memoria a quei treni, alle attese (che sono anche speranze), ai ritorni sempre più tardi, alle partenze sempre più presto.
E penserò a quell’orologio fermo. Che sembra dirci mille cose e nessuna. Che ci parla del tempo che passa e che non passa, perché alla fine torniamo sempre là. A quegli anni in cui molti di noi erano troppo piccoli, ma buona parte del nostro futuro si andava decidendo già. E non parlo del futuro personale solamente, parlo del futuro collettivo. Un futuro che è un debito, di questi tempi, soprattutto.
L’orologio fermo di quella stazione, della stazione per antonomasia anche per via di quella canzone, ci dice che il tempo passa anche se qualcuno non lo vuole far passare.
Che la memoria è un imperativo. Che la verità una cosa che fatica a svelarsi. E che qualcuno si muove alle nostre spalle. E che può avere anche la presunzione e l’arroganza di voler fermare il tempo. E di riuscirci. Per molto tempo.
E però ci dice anche che il tempo è passato, che è cambiato quasi tutto, anche le vacanze, il modo di andarci, il tempo e la durata. Ed è cambiata la società, intorno a quell’orologio, sono cambiate le famiglie, i movimenti, i treni, le priorità. Le immagini della tv. E gli schermi in cui guardiamo scorrere le notizie. E siamo cambiati anche noi.
Chissà perché è un orologio fermo a ricordarci che il tempo passa. E che l’unica cosa che possiamo fare è cercare di vivere e di ricordare, l’una e l’altra cosa. Che non è così semplice. No, non lo è.
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