Non ero mai entrato alla Camera dei Deputati. E siccome bisogna prendere sul serio l’istituzione e non prendere troppo sul serio se stessi, vi racconto che cosa mi è capitato, ieri, qualche minuto dopo mezzogiorno.
Che Antonio Decaro, uno dei migliori deputati eletti, con cui ho varcato per la prima volta la soglia del Parlamento, è arrivato con qualche minuto di ritardo (eufemismo) e ci sono passati davanti in molti. Anzi, diciamo, quasi tutti.
Che una giornalista con piglio deciso si è rivolta a me poco prima dell’ingresso, porgendomi il microfono e chiedendomi: «lei che è grillino del Friuli-Venezia Giulia [giuro] come si sente, oggi?».
Che la coda per i certificati è durata più della legislatura che si apre (quattro ore quattro).
Che non siamo nemmeno entrati alla buvette e il caffè ce lo siamo bevuti alla macchinetta del quarto piano, tra la foto e le impronte digitali.
Che i commessi ci hanno indicato per due volte la coda sbagliata.
Che i documenti ufficialissimi riportavano come nome e cognome Pippo Civati e non Giuseppe (sul serio).
Che era pieno di facce nuove e belle e fresche, che se solo le volessimo vedere, scopriremmo che questo è un Parlamento nuovissimo, molto più nuovo di quanto si possa immaginare. E che per un attimo ho pensato che forse la possibilità di fare qualcosa passi proprio per le moltissime donne elette, in molti casi giovani e, cosa ben più importanti, competenti e elette attraverso le primarie, a cui affiderei un mandato pieno per tirarci fuori dai guai.
Che sono tempi di malizia e di curiosità un po’ morbosa, intorno alla politica, ma che le istituzioni della Repubblica meritano rispetto, incutono un po’ di timore reverenziale e danno più di un’emozione, almeno al vostro affezionatissimo.
Che è un Parlamento di precari (politicamente parlando) e, sotto questo profilo, è uno specchio fedele del Paese. E che durerà poco, molto probabilmente, ma sarebbe bello che fosse un’esperienza intensa. Non tanto per noi, quanto per i cittadini che ci onoriamo di rappresentare.
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