Popolino rompe lo schema. Perché la sentenza di oggi è accompagnata da una tonnellata di retorica e gli eventi del novembre di due anni fa sembrano lontanissimi. Allora risuonava su Twitter l’Aeiouy, un coro liberatorio che auspicava e accompagnava il cambio di governo, mentre oggi prevale una sorta di circospetto imbarazzo, rimbalzano gli inviti alla cautela, i toni stentorei si stemperano: tutto è (o, meglio, depone) a favore della mitica governabilità.

Nello schema del «non ci sono alternative», per molti, tra i banchi della maggioranza, è naturale augurarsi una sentenza favorevole a Berlusconi. Il rovesciamento è compiuto. La dialettica democratica è stata definitivamente ricondotta a toni gentili, la pacificazione è diventata un mantra, l’antiberlusconismo è stato archiviato, e non perché non ci sia più il berlusconismo: perché non c’è più l’«anti». Di questi tempi, non sta bene tifare, o esprimere opinioni o considerare la gravità di una situazione. Del resto, gli stessi che per anni hanno confuso politica e magistratura, a botte di leggi ad personam e di campagne infinite contro i giudici (e lo hanno fatto fino a due settimane fa, quando hanno chiesto di sospendere i lavori parlamentari per via della fissazione dell’udienza), oggi dissimulano, assumono un profilo più paludato, morigerato, quasi timido.

Come ripeto da giorni, non credo ci sia da aspettarsi nulla di clamoroso, sia in un caso che nell’altro. A meno che non sia lo stesso Berlusconi – un caimano in versione peluche, negli ultimi giorni – a prendere l’iniziativa: perché a lui è consentito, in questo schema, per via della sua irriducibilità. A tutti gli altri, no.

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