Andrea Pertici interviene a proposito delle brutte uscite antiparlamentariste di Piero Fassino e di un clima sempre più pesante che ci preoccupa parecchio:
Con metodo costituzionale
Il sindaco Fassino rilascia a Il Corriere della Sera un’intervista in cui propone un ripensamento critico delle stesse basi della democrazia parlamentare.
Il primo a cadere sotto la sferzante critica del sindaco è, appunto, il Parlamento: «se restasse chiuso sei mesi, potrebbe perfino capitare che nessuno se ne accorga». Esso, infatti, «ha perso la sua centralità perché la decisione politica è cambiata nelle due variabili dello spazio e del tempo. […] nel tempo reale, in cui tutto quel che accade è subito noto sul telefonino o sul web, il tempo differito della decisione politica è troppo lento. Anche la legge più giusta sembra arrivare sempre troppo tardi. Ha fatto bene Renzi ad affrontare il nodo del bicameralismo, che poi significava almeno tre passaggi per ogni legge. Avere una sola Camera che legifera significa ridurre i tempi a un terzo e avere leggi tempestive».
Ora, a parte il fatto che la riforma costituzionale in discussione, non eliminerebbe il bicameralismo, ma lo complicherebbe, ridurre le procedure parlamentari a mere lungaggini pare gravemente irrispettoso del principio democratico. Le procedure previste – in parte semplificabili, senza che possa essere comunque raggiunta la velocità di un tweet – servono a garantire che la legge possa essere davvero manifestazione della volontà popolare. E che questa risulti accettabile a tutti, anche a chi ha visto soccombere la propria posizione avendo comunque potuto contribuire alla formazione dell’atto. Semplificando molto si potrebbe dire che la democrazia è decidere insieme. E per questo serve un pochino di tempo.
Forse bisognava non averne perso così tanto negli ultimi vent’anni, quelli di cui sono stati protagonisti molti di coloro che adesso hanno tanta fretta.
Forse ancora oggi si potrebbe evitare di perdere tempo approvando in prima lettura brutte leggi, con tanto di veri e propri errori, che poi si dichiara subito di dover correggere nell’altra Camera (divenendo così accaniti sostenitori per fatti concludenti del bicameralismo perfetto). Se si utilizza male un sistema, la colpa non è del sistema, ma di chi lo utilizza.
In ogni caso, se si ritiene che ci sia una così forte inadeguatezza del sistema, bisogna proporne una modifica con tutti i passaggi necessari (anche se si reputano lungaggini), consapevoli, però, che finché quel sistema vige va rispettato. Sarebbe interessante, poi, conoscere le proposte alternative.
Perché a parte un cenno al monocameralismo, che porta lontano dalla riforma costituzionale avviata, non è chiaro in che modo questo superamento del parlamentarismo dovrebbe avvenire. Peraltro, muovendoci nel campo delle alternative presenti nelle democrazie avanzate, nessuna di queste assicura – per fortuna – il superamento di ciò che più sembra preoccupare: il dissenso. Anche di singoli. E anche rispetto al proprio partito. Avviene molto spesso, ad esempio, anche negli Stati Uniti, dove abbiamo il presidenzialismo, che i parlamentari del partito del presidente si orientino diversamente.
Certo in un sistema parlamentare il dissenso può mettere più direttamente in crisi l’Esecutivo.
Questo, però, non solo è consentito, ma anzi previsto dalla Costituzione. È la cifra del parlamentarismo, in base al quale il Governo, se intende vedere approvate le proprie proposte, deve formularle in modo che queste godano della maggioranza dei consensi in Parlamento. E non dei consensi dei partiti, ma proprio dei singoli parlamentari. Che devono rispettare – cosa che spesso rimane in ombra – gli impegni presi con gli elettori prima che le deliberazioni di alcuni dirigenti di partito. A proposito di partecipazione.
E, in effetti, la critica del sindaco è pesante anche rispetto ai partiti, ormai incapaci di coinvolgere. Questo è indubbiamente vero e confermato dai dati che circolano sul numero di iscritti. Ma non sarebbe il caso di chiedersi perché? Pare troppo sbrigativo liquidare questa forma di partecipazione – che la Costituzione indica come quella con cui i cittadini concorrono alla determinazione della politica nazionale – a una questione “nostalgica”. Forse si potrebbe riflettere su quante decisioni sono state assunte dai partiti politici con l’effettivo contributo dei loro militanti, quante volte questi ultimi sono stati sentiti su alcune scelte politiche fondamentali, in che modo i dirigenti hanno consentito loro di concorrere davvero alla determinazione della politica nazionale. Così, forse, si potrebbero cercare delle risposte. Ed è vero che bisogna trovare nuove forme di partecipazione, ma le si sta cercando? Le primarie sono uno strumento importante, ma oggi sono solo a discrezione dei partiti (e lo stesso partito democratico non le svolge sempre), e comunque non possono esaurire il discorso. Anche perché con queste ci si limita a selezionare i candidati, ma non solo di nomi si dovrebbe occupare la politica. Anzitutto dovrebbe decidere su alcune scelte fondamentali. Sentendo, con procedure adeguate, che consentano a ciascuno la espressione della propria posizione, gli elettori. E allora perché molti referendum sono rimasti inattuati o sono stati rinnegati (come anche la Corte costituzionale ha constatato nella sentenza n. 199 del 2012 a proposito della gestione dei servizi pubblici locali)? Perché i partiti stessi non interrogano i propri elettori su alcune scelte fondamentali come quelle sulla riforma del lavoro? Perché, ad esempio, il centrosinistra, che aveva gli elenchi delle primarie ancora freschi d’uso, non ha richiamato quegli elettori a pronunciarsi sulla questione delle larghe intese?Ecco, così i partiti non sarebbero per nostalgici, ma diverrebbero strumenti dinamici della partecipazione, capaci di coinvolgere e di meglio rappresentare la volontà in Parlamento. Che ci piace aperto e funzionante e capace di esprimere tutte le posizioni. Quelle degli elettori piuttosto che dei dirigenti di partito.
È, in fondo, l’attuazione della Costituzione. Vigente.
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