Leggo interessanti articoli in cui la cosiddetta «minoranza del Pd» (dico cosiddetta perché non si capisce chi sia in minoranza, visto che tutte le correnti sono al governo e in segreteria nazionale, a parte chi scrive e pochi altri) sta alternando giudizi che cambiano di ora in ora sul Jobs Act: prima il capogruppo prendeva in giro Sacconi (che in realtà secondo me è molto soddisfatto), ora chiede le modifiche al decreto del governo. Chi ha votato a favore parla di «lesione costituzionale». Chi ha prodotto la mediazione parla di eccesso di delega.

Pare che sia nata una nuova corrente: quella dei «trattativisti», che sperano di cambiare il testo di Poletti, dopo avere accolto con favore le notizie che provenivano da Palazzo Chigi solo qualche ora fa. Poletti li ha già ‘rassicurati’: non si cambia una virgola. Va bene così.

Ora, lo dico senza polemica: questo giro di dichiarazioni per me è incomprensibile. Se si era così preoccupati, si potevano raccogliere le firme di centinaia di parlamentari per evitare che il Jobs Act contenesse le norme sui licenziamenti facili e sul demansionamento prima di arrivare alla discussione alle Camere, come avevo proposto. E, invece, si è preferito trattare, poi mediare, poi posizionarsi, poi condividere con preoccupazione, poi preoccuparsi per la condivisione.

Il problema non è tra correnti del Pd, è con la realtà delle cose. I lavoratori lo hanno capito benissimo, e infatti sono preoccupati da mesi. Resta da capire che cosa voglia fare (stavo per scrivere: essere) il Pd. Perché una cosa è certa: non si può essere contemporaneamente con e contro Renzi e le sue politiche sul lavoro, per la contradizion che nol consente. E avere ridotto il fronte dei contrari per «collaborare», ci ha portati fin qui.

L’importante è saperlo.

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