Sappiamo tutti che la riforma costituzionale è più importante della riforma della legge elettorale. Se cambiasse quest’ultima, non cambierebbe il giudizio sulla prima.
La Costituzione ha un valore che non può essere mischiato con la tattica o l’opportunità del momento, con buona pace della minoranza del Pd.
Sappiamo però anche che la legge di riforma costituzionale (unica, all inclusive, per decisione del governo, altro che spacchettamento) e la legge elettorale sono nate sotto lo stesso cavolo.
La levatrice non fu socratica, ma nazarena. E quando il premier dice – sempre per attenersi al merito, immagino – che se vince il No torna Berlusconi, gli andrebbe ricordato che proprio dall’unione con Berlusconi – allora appena decaduto, peraltro – dipendono sia la riforma, sia la legge elettorale. Anzi, per essere precisi, da quell’unione dipende anche lo stesso governo e lo staisereno di inizio 2014.
Sono nate sotto lo stesso cavolo, dicevamo. Peraltro, sono nate sotto lo stesso cavolo anche le forzature: è di allora l’idea che i senatori non dovessero essere eletti (allora erano 108 sindaci, quelli dei capoluoghi di provincia), non dovessero essere pagati e, di quella stagione, l’idea che ci dovesse essere un ballottaggio – non di collegio sui singoli parlamentari, ma generale – che oggi lo stesso Napolitano sembra mettere in discussione in una intervista a Repubblica (prendendosela con il premio, altra idea del cavolo, diciamo così).
Allora il non ancora premier propose tre soluzioni di legge elettorale: una simile al Mattarellum, una simile al sistema spagnolo (proprio quello che oggi una certa propaganda sbeffeggia), quella che poi divenne l’italica. E sapete chi scelse quella soluzione tra le altre: Berlusconi, proprio quello che tornerebbe se vincessero i no. Pensa te. Fu siglato un patto, in proposito, sotto a quel cavolo. E nacque un nuovo governo. E la riforma. E la legge elettorale.
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