«Consiglio comunale in gita a Roma», «la falla nella lobby», «lobby di provincia fameliche e maldestre»: sono le parole dei principali quotidiani a commento di quella che a leggere i titoli sembra la saga dei Rignanos, tra fondazioni, cimici, pizzini e mille altre cose tutte da verificare.

Stupisce l’accanimento, ancora più stridente perché arriva dopo anni di elogi sperticati e di cori unanimi.

Stupisce perché arriva – qui sta il giustizialismo – dopo che è stata aperta un’inchiesta giudiziaria. Prima che accadesse – e con qualche ritardo anche in questo caso – la politica e i media non avevano avuto nulla da ridire.

Eppure erano tutti fiorentini, al governo. Era un must, la provenienza. E a chi segnalava l’incongruità veniva dato del rosicone, del velleitario, del candido.

Dov’erano le direzioni di Repubblica e Corriere e di mille altre testate giornalistiche? La risposta è contenuta nella domanda: erano là. A sostenere il pacchetto di mischia che ora liquidano come una lobby, a celebrare la «scalata» senza rendersi conto che già nella scelta delle parole c’era qualcosa di strano, a liquidare come antimoderni quelli che non salivano sul carro della banda (espressione della politica universale che oggi assume significati inquietanti), fingendo la parlata toscana e parenti in riva all’Arno.

Un gruppo (nel senso del Kerngruppe) di amici, giovani, spensierati, guasconi e formidabili faceva troppo cool. Era irresistibile per le cronache giornalistiche. E troppo importante perché gli altri poteri non formassero, intorno, cerchi concentrici, che a leggere i giornali di oggi sembrano invece cerchi danteschi di corrotti e di cialtroni.

Ci si dimentica, peraltro, che qualcuno aveva posto il problema del (sotto)potere e della (sotto)cultura che lo accompagnava e si era sottratto, alla Bartleby, anche quando ce n’è stata l’occasione, anche quando il messaggio era – letteralmente – «c’è posto per tutti». E si intendeva al governo e in tutto ciò che gli sta intorno. Bisognava liquidare un premier e suonare la grancassa perché non si udissero i rumori del retrobottega: fatto. Bisognava accettare tutte le nomine, perché il vento tirava impetuoso. Bisognava costruire nuovi personaggi, perché erano loro, i padroni assoluti. Da cui tutto dipendeva. Gli altri? Solo simpatici sfigati, arretrati, noiosetti.

Ora, a me dell’inchiesta giudiziaria interessa, e non può non interessare, come a tutti. Aggiungo che non mi piacciono gli attacchi personali, non mi piacciono le caricature, non mi piacciono i giudizi sommari. E credo che sia giusto seguirla, spiegando bene come stanno le cose e chiarendo ogni passaggio.

Mi preme però ancor di più il punto politico, rispetto a fenomeni che si possono osservare da anni (e in generale da sempre), rispetto ai quali il Paese e la sua opinione pubblica non hanno mai dimostrato di avere gli anticorpi e una cultura del rispetto, non del sospetto. Che si manifesti prima e durante, non dopo. Che sappia affrontare il potere quando c’è, non giudicare quando è passato o sta passando. Che non passi sopra ai comportamenti, come se non contassero. Che non banalizzi anche le cose più ovvie. Perché se sono ovvie, «prima» o «poi», vengono fuori. Chissà perché in Italia è sempre «poi».

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