La vicenda di Gabriele Del Grande ha un significato politico e culturale di valore assoluto e di dimensione europea, perché disvela tutti i paradossi, tutte le contraddizioni e tutte le opacità che ci riguardano.

Un europeo detenuto, senza poter comunicare con l’esterno, in una linea d’ombra del diritto e della dignità, in un centro destinato ai migranti, proprio come i Cie recentemente rilanciati, come i tanti centri finanziati dagli Stati e dall’Unione europea.

Un percorso alla rovescia che riguarda una persona che tra i primi in assoluto ha lavorato alacremente per denunciare le violazioni, i soprusi, le lesioni che hanno riguardato la vita delle persone e lo Stato di diritto, come ricordato dalla sindaca di Lampedusa, che ha dedicato a Del Grande il riconoscimento appena ricevuto (anche Nicolini essendo paradosso vivente, ammiratissimo il suo impegno e la sua tenacia e però per nulla ‘tradotti’ nelle normative italiane, dal suo partito, peraltro).

La questione dei diritti fondamentali, della libertà degli individui, non può essere contenuta e detenuta sotto forme parziali. Ciò che pretendiamo per Del Grande, da un paese che finanziamo per collaborare sull’immigrazione, dovremmo pretenderlo per tutti.

Si tratta dell’unico modo di esportare democrazia (come dice Fornario, a furia di esportarla non ne abbiamo più), per pretendere rispetto, per aprire una grande battaglia politica.

Anche noi siamo migranti, ci racconta il caso Del Grande. Migranti verso un futuro che non conosciamo e che però si manifesta con una riduzione dei diritti, con una limitazione delle libertà, con un certo fastidio delle norme elementari che dovrebbero tutelare le nostre vite.

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