Capita di trovarsi a discutere, in una sala pubblica di Alcamo, del ‘solito’ impianto per bruciare rifiuti, come se il tempo non passasse. come se l’economia circolare fosse un miraggio e non una realtà e insieme un’urgenza.

Nelle terre delle nobili mobilitazioni di Danilo Dolci, della Sicilia meravigliosa tra Segesta e San Vito lo Capo, ci tocca ricordare che ciò che non si spiega nella fase economica e sociale attuale con la chiave di lettura dell’ambiente e delle innovazioni in campo ecologico si può interpretare meglio e in buona parte risolvere.

Si tratta di ricerca, di lavoro ad alta intensità (così come per l’efficienza energetica, dall’idraulico allo scienziato, dal muratore al ricercatore), per creare un contesto di qualità ambientale in cui maturino e crescano tutti, chi fa agricoltura, chi offre benessere, chi semplicemente sceglie quel posto per vivere. Tra scienza e artigianato, anche questa sarebbe la vocazione del nostro modo di produrre e di fare.

Chi non investe in un nuovo ciclo dei rifiuti e nella produzione di energia pulita (e non disinveste dai fossili, come ci ricordano con una campagna di grande profilo i Verdi europei), perde competitività. Si taglia fuori da solo.

Vale la pena di ribadirlo ancora una volta: non solo la politica dovrebbe promuovere la ricerca, ma la politica stessa è ricerca, soprattutto se la crisi è strutturale.

L’articolo 9 della nostra Costituzione ci ricorda che paesaggio e tutela sono strettamente collegati con la ricerca scientifica. I due commi vengono uno dopo l’altro, ma si possono concepire come endiadi, soprattutto nella fase della «transizione».

Veniamo da cinque anni buttati al vento, che portano con sé ulteriori ritardi. Indecisione, conservazione, tutela di rendite (tradizionali che più tradizionali non si può), come si può vedere anche dalla scarsa propensione di questo paese a far pagare royalties a chi estrae.

Pare che quando arrivarono i garibaldini da quelle parti lo slogan passato alla storia come «o si fa l’Italia o si muore» in realtà fosse più prosaicamente «qui non si va né avanti né indietro» (il luogo della memoria in quel caso è Pianto Romano, non si sa se il nome stesso valga come metafora). Ma per non rimanere indietro, si deve andare avanti: riprogettare il ciclo dei rifiuti, pretendere che tutti facciano la raccolta differenziata (minchia), progettare l’Italia (non ‘sbloccarla’ con decreti che in realtà la fossilizzano), togliere potere agli interessi più spiccioli per dare una prospettiva al Paese. E a quegli stessi interessi, peraltro.

A Treviso lo hanno fatto, ci ha ricordato Enzo Favoino, riducendo i costi per di più, perché anche di questo si tratta. Così come in molte località, anche del Sud (la Campania, ad esempio) hanno risultati notevoli, nella direzione dei «rifiuti zero». Non importa la latitudine, importa la strategia: una strategia complessiva, che riguarda anche gli strumenti finanziari da adeguare e i decreti da armonizzare.

E l’esperienza dimostra che ogni ‘riforma’ ecologica si fa con i cittadini, non contro di loro. Si fa con il consenso che viene dall’informazione e dalla conoscenza. Si fa per stare meglio tutti. Insieme.

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