Luca Landò ha scritto un libro prezioso – La cura. Se l’Italia fosse un corpo umano (Chiarelettere) – per chi vuole ragionare in termini non episodici su ciò di cui l’Italia ha bisogno per ‘curarsi’ e della necessità che ne sia consapevole.
La «cura» è una bella parola e diventa nelle pagine di Landò una metafora ricca di suggestioni in un momento nel quale pochissimi si prendono cura (appunto) del Paese, delle parole per descriverlo, dei dati reali che lo riguardano.
Anche la parola «paziente», del resto, fa pensare, perché è un invito agli elettori a non pretendere le tempeste in un bicchier d’acqua della polemica politica quotidiana, lo specchio riflesso in cui tutti si accusano di tutto (e anche del suo contrario), né soluzioni improvvise (e improvvisate) ma una programmazione paziente, una strategia rigorosa, definita da precise scadenze: una cura diligente, insomma.
Ho chiesto, quindi, al «dottor» Landò quali sono le tre pillole da cui partire per una terapia efficace. Mi ha risposto così.
Tre pillole per l’Italia? La prima è rossa con una “V” grande come una casa. È la più difficile da mandar giù, perché richiede di raccontare al paziente la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. Purtroppo per noi, si tratta di una pillola molto amara.
Se prendiamo i dati Eurostat sull’andamento dei 28 Paesi, compresi l’Inghilterra pre-Brexit, vediamo che il nostro Paese occupa da anni gli ultimi posti della classifica: terzultimi come crescita annuale del Pil, quartultimi per la trasformazione digitale del Paese, ultimi come percentuale di nuovi laureati, penultimi come occupazione femminile, in compenso siamo tra primi per eccesso di povertà minorile (quinti), dipendenza energetica (settimi) e disoccupazione giovanile (terzi). Altro che competere con Francia, Germania e Inghilterra per il quarto, quinto posto dell’economia mondiale, come si scriveva con orgoglio negli anni Ottanta: i nostri diretti avversari, nelle classifiche delle diverse perfomance europee, si chiamano Malta, Cipro, Grecia…
Ecco la verità che nessuno racconta da tempo: eravamo un Paese da Champions e siamo finiti in zona retrocessione. Se l’Italia fosse una squadra di calcio ci sarebbero processi del lunedì, ma anche del martedi e del mercoledì; ci sarebbero articoli in prima pagina tutti i giorni e discussioni a non finire nei bar e negli uffici, invece…
La seconda pillola è bianca con una lettera O, come “ormone della crescita”. Purtroppo per noi ne esistono di vari tipi e quella che abbiamo usato per decenni durante il leggendario miracolo economico è finita a metà degli anni Ottanta. Qualcuno la vorrebbe sintetizzare di nuovo, tornando alla lira e giocando con la svalutazione. Peccato che quella molecola, se anche tornasse sul mercato, non sarebbe più efficace, perché il mondo, e anche il mercato, è cambiato e non più quello di prima. Per tornare a crescere bisogna prima di tutto comprendere, senza se e senza ma, che la vecchia ricetta non è più efficace. Tornare ad essere un Paese a basso costo del lavoro come eravamo negli anni del boom sarebbe anacronistico e poco astuto, vista la concorrenza imbattibile di Romania e Bulgaria dove un’ora di lavoro costa meno di 4 euro (in Italia siamo a 29) o quella inarrivabile di Bangladesh, Pakistan e India dove siamo tra 0,23 e 0,48 dollari. In alternativa, vogliamo sfidare Cina e Germania sul terreno a loro congeniale della grande industria? Difficile pensarlo, ancor di più realizzarlo. C’è una sola strada: si chiama innovazione.
La terza pillola è verde e ha una gigantesca “I” che sta per “investimenti”. Perché se è vero che nell’era della conoscenza il motore è l’innovazione, è altrettanto vero che non si fa innovazione se non si investe in ricerca. L’Italia è tra i Paesi che investono meno in generale e in Europa in particolare: con l’1,33% del Pil spezziamo le ossa alla Grecia ma le buschiamo da Spagna e Portogallo, per non parlare di Danimarca, Stati Uniti, Svezia, che viaggiano tra il 3 e il 4%.
Se vogliamo uscire dalla crisi abbiamo bisogno di una seria politica dell’innovazione. Questo non vuol dire tornare all’economia centralizzata dell’Unione Sovietica ma prendere atto, come hanno fatto gli Usa (computer revolution e biotecnologie) che l’innovazione non è una faccenda privata. Per partire ci vuole un motorino, anzi un “motorone”, d’avviamento. E questo lo può realizzare solamente lo Stato.
Conosco l’obiezione: i soldi mancavano prima, figuriamoci adesso che siamo in piena crisi. Obiezione respinta. L’evasione fiscale oggi ammonta a 120 miliardi l’anno, ne basterebbe recuperare un sesto, per raddoppiare i nostri investimenti in ricerca. Sicuri che sia davvero impossibile farlo? Un sesto. Con un terzo, avremmo un investimento, come percentuale del Pil, pari a quello del nord Europa. Vogliamo aprire il capitolo oscuro della patrimoniale? Se servisse a far ripartire il Paese su basi strategiche nuove, non a finanziare la spesa corrente, sarebbe così difficile da gestire politicamente? Sicuri che dopo aver assunto la pillola rossa della verità, l’opinione pubblica non accetti quella rossa degli investimenti?
Già, bianco, rosso, verde: eccole le tre pillole che, tra le tante, potrebbero togliere il Paese dal binario morto in cui si trova per rimetterlo su quello assai più vivo della crescita.
C’è però un quarto farmaco, uno sciroppo se vogliamo, che dovrebbe accompagnare le tre pillole della crescita. Sul flacone compare una enorme D perché è ormai riconosciuto, lo dicono tutti i migliori economisti, che non c’è crescita se c’è troppa diseguaglianza. Perché nei tempi di crisi si allarga la forbice tra ricchi e poveri e si deprime la classe media, autentica cinghia di trasmissione dell’economia e dei consumi. Perché quando aumenta la diseguaglianza vuol dire che si sono bloccati gli ascensori sociali e questa porta a un impoverimento della vita sociale ed economica. Infine, perché quando si bloccano gli ascensori si riduce il numero di talenti che formano il capitale umano di un Paese e questo, nell’era della conoscenza, è un autentico suicidio.
E qui arriviamo al punto cruciale: perché una terapia, qualunque terapia abbia effetto bisogna che il paziente abbia voglia di curarsi. Cosa che finora non è mai avvenuta. E questo, spiace dirlo, è colpa di tutti noi, noi cittadini che abbiamo accettato che il Paese si ammalasse senza protestare, ma nemmeno mormorare. Sì, colpa di tutti. Eletti ed elettori. Perché siamo noi, con le nostre scelte e i nostri voti (compresa l’illusione di “non votare”) che decidiamo a quale dottore consegnare la salute del nostro Paese. E colpa degli eletti, dei “dottori” che evidentemente non hanno saputo o voluto adottare le terapie più adeguate. Ma soprattutto, spiace dirlo, che non hanno sentito la responsabilità, enorme, che spetta oggi alla politica: cominciare a capire che “se davvero vogliamo curarlo e guarirlo, questo benedetto Paese, forse è arrivato il momento di guardare l’Italia in modo diverso da come abbiamo fatto finora: non più come un luogo lontano, ma come un corpo vicino; non più uno stato distante un Paese che arranca, ma un organismo malato da studiare, curare, persino amare”.
Prendersi cura di un Paese malato. C’è qualcosa di più nobile e alto per chi ha scelto di occuparsi di politica?
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