Il bello di avere un blog è che ha la memoria lunga. E in piazza dei Santi Apostoli, domani, si riproporrà una questione che in quella stessa piazza si pose il 4 ottobre 2014, quando si stava discutendo di Jobs Act e di Sblocca Italia.
Ne scrissi qui, potete verificarlo insieme a me.
Domani ci sarò, come sempre per ribadire alcune questioni, che mi porterò nello zainetto, insieme alla Costituzione e al «manifesto» che con molti di voi stiamo scrivendo.
1. Prima di tutto, l’autonomia. Come ripeto da tempo, autonomia e unità servono entrambe, ma la prima è condizione della seconda. Il tempo delle ambiguità è finito, da molto tempo. Il dialogo con il Pd e con Renzi (il PdR), da cui Pisapia era partito, con il voto del 4 dicembre 2016 e con l’appello di qualche giorno dopo, non era «possibile» e ciò era già stato dimostrato ampiamente dagli anni di governo, dalla cultura politica che li aveva accompagnati, dalle scelte ‘irrevocabili’ assunte dagli esecutivi che si sono succeduti. Gli ultimi eventi hanno soltanto confermato questo stato di cose: non c’era bisogno di aspettare il secondo turno delle Amministrative per rendersene conto.
2. L’unità è una sfida, altrettanto importante. Nessuno capirebbe due liste a sinistra (non a sinistra del Pd, perché il Pd ha definitivamente compiuto la sua scelta centrista, rispetto alla quale Renzi è stato un Macron ante litteram): quando dico da Boccia al Che Guevara – scherzando ma facendo molto sul serio – proprio a questo mi riferisco. Rinunciare a questa possibilità in partenza, è un errore micidiale.
3. L’unità si fonda su pochi e chiarissimi elementi: un «manifesto» politico, di governo, impegnativo e lucido, preciso fino al dettaglio e rigoroso per la coerenza a cui si deve richiamare. Un metodo democratico nella scelta delle persone migliori per interpretarlo. L’impegno a non limitarsi al rapporto con gli elettori nel giorno del voto e nelle settimane immediatamente precedenti, ma prosegue ogni giorno, nel corso della legislatura. Chi richiama l’Ulivo, che sembra preistoria con tutto ciò che è accaduto, si ricordi che essenziale allora fu la scrittura di un programma, che si opponesse a Berlusconi, ma che sapesse dire qualcosa sul futuro del Paese. Soprattutto.
4. Discontinuità. Domani in piazza ci saranno molti esponenti che non solo hanno sostenuto i governi di passaggio di questi anni (passaggio l’uno dall’altro), ma ne fanno direttamente parte. Se decidono di sostenere un progetto politico diverso e prendere le distanze da ciò che è stato fatto, è una buona occasione. Perché sono un tifoso dell’unità, ma non a qualsiasi costo. E non solo per ragioni di ordine ‘morale’, che comunque per me sono rilevanti, per ragioni intrinsecamente politiche. Chi ha condiviso tutto ciò che è stato fatto, chi ha scritto le ‘riforme’ incerte e sbagliate di questi anni, deve spiegare bene prima di tutto a se stesso che cosa è cambiato e perché.
5. Apertura. Ho partecipato all’assemblea del 18 giugno al Brancaccio con l’obiettivo di ribadire ciò in cui credo ma anche per porre questioni alla piazza di domani. Se vogliamo un «apostolato (laico!)» dobbiamo evitare che si risolva tutto in un pasticciaccio di via Merulana, in un giallo dell’estate, ma tutto si discuta nella chiarezza, nella sincerità e nella serietà, dobbiamo essere generosi e lucidi. E sapete perché? Perché il paese non sta bene, perché ci sono questioni più grandi di noi, perché la nostra responsabilità deve corrispondere a questa situazione. Che non riguarda il ceto politico, ma le persone. Che non si riferisce all’oggi, ma al domani e al dopodomani.
6. Immaginazione. Un passo di Deleuze ci ricorda che ci vuole popolo e però anche creazione. Non chiudiamoci in un dibattito politicistico, sulle formule, sulle nostalgie, sul dov’eravamo, sui centro-sinistra con i trattini o senza, anche perché quel trattino è diventato, nel corso degli anni un «meno». Ci vuole un nuovo patto sociale e repubblicano, che parli al paese con uno sguardo largo ed europeo, per rispondere a due questioni fondamentali che alla fine sono la stessa cosa: la sensazione di essere stati espulsi e marginalizzati dal punto di vista economico e sociale e la disaffezione verso le istituzioni e il rapporto con la politica. Leggo, infine, molte citazioni a vanvera di Corbyn, che è il tipo del momento, da citare per fare bella figura. La questione non è anagrafica e speculare al superficiale giovanilismo di questi anni: è una questione politica. Corbyn e Sanders, ad esempio, non rappresentano una riproposizione nostalgica, ma una proposta in rottura con il passato. Non riscaldiamo minestre, proviamo a preparare una ricetta nuova, «istruzioni nuove» come scrive Mariangela Gualtieri, su come affrontare la politica. E cambiare il mondo.
7. Attenzione. Per concludere, consiglio la lettura di questo pezzo di Critica liberale. Da leggere prima di recarsi in piazza, diciamo così.
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