Notavo ieri sera a Napoli che l’uscita di Di Maio, che ricalca quelle di tutti gli altri capi politici precedenti, a destra e ahinoi a ‘sinistra’, non mi sorprende. Da Berlusconi che li prendeva a pallonate, al gettone nell’iPhone che qualcuno ‘tirò’ contro la piazza San Giovanni della Cgil, ai tempi del Jobs Act, è un tormentone nemmeno troppo originale.

Come con i partiti è facile prendersela con i sindacati: annullarli è più semplice che proporre modelli alternativi, come si è visto anche per la democrazia interna del M5s. Dalla padella partitocratica alla brace autoritaria, potremmo dire.

In un mondo così, invece, è molto meglio iscriversi ai sindacati e pretendere che funzionino meglio. Dove non c’è rappresentanza, i lavoratori sono più deboli. Nei settori dove il modello Di Maio si è già imposto, prevale lo sfruttamento, il cottimo, la guerra tra poveri, un conflitto più brutale e doloroso.

Un modello di società disintermediata, che atomizza le persone e favorisce chi sta sopra, non certo chi sta sotto. E che impone che – come per la politica, anche per il sindacato – si migliori la qualità della rappresentanza e della partecipazione. Ma una società senza partiti e senza sindacati, c’è già stata e tornarci sarebbe una follia.

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