In questa legislatura ne abbiamo viste tante, quasi tutte. Ma ogni volta che lo pensi e pensi che sia arrivato il limite invalicabile ne accadono di altre e spesso di peggiori.
Dopo il referendum e la sentenza della Corte costituzionale che demoliva l’Italicum come aveva demolito il Porcellum, ci si aspettava prudenza e responsabilità da parte della maggioranza e del governo. E invece si è posta la fiducia, come già sull’Italicum incostituzionale.
Sul trasformismo ieri in aula c’è stato un dotto intervento di Giulio Marcon, che ha ricordato la denuncia del «trasformismo molecolare» di Gramsci: nei Quaderni dal carcere, in quelli sul Risorgimento, ci parlava del trasformismo come funzione del dominio, cioè dall’alto, di un “trasformismo molecolare” come funzione di governo e di egemonia, ma quella cattiva. Esempio che si attaglia perfettamente al trasformismo cui si dà vita con questa legge elettorale e con questa pratica politica e di potere: il trasformismo delle coalizioni con le liste civetta, il trasformismo del PD che si crocetizza in Sicilia, si verdinizza in Toscana, si emilianizza in Puglia e si alfanizza dove serve.
Tutto si trasforma. Le scelte, le cose e le persone. La stessa maggioranza, che ora al Senato avrà bisogno della non-sfiducia di Berlusconi e Salvini e della fiducia militante di Verdini per vedere approvata la legge.
Una legge che prevede coalizioni della domenica, il giorno del voto, in cui le liste si presentano con i loro programmi e i loro «capi», per poi magari smobilitare successivamente, come se niente fosse, componendo altre coalizioni di governo.
Coalizioni trasformistiche che a loro volta si trasformeranno.
De Sanctis all’epoca del trasformismo fu testimone di queste incessanti metamorfosi. Denis Mack Smith che ha curato la prefazione all’edizione di Passigli parla di «partito omnibus»: associazioni temporanee di liste che vanno da Alfano alla Bonino, qualcuno vorrebbe anche da Pisapia a Lupi.
Un sistema che ci porta un po’ più a destra.
Così dopo aver fatto tutte le cose di destra che si poteva, si fa la legge elettorale che premia la destra.
In ragione di una perversa coerenza, dopo aver fatto parecchie cose che Berlusconi non aveva osato o non era riuscito a fare, dall’articolo 18 alla soglia del contante, dalla tassa sugli immobili che i ricchi non pagano più alle infrastrutture già previste, lasciando intatta la legislazione sull’immigrazione ereditata dalla destra, ecco che il genio del partito del governo partorisce una legge elettorale che favorisce la destra e per il modo con cui è stata approvata anche il M5s.
La ragione è semplice: le coalizioni previste dal Rosatellum (in questo perfetto erede del Porcellum) premiano la destra, che le ha, e non il Pd che ora se le deve letteralmente inventare.
Dopo aver fatto per quattro anni i fenomeni che non dovevano chiedere mai niente a nessuno, ecco il capolavoro: una legge elettorale che a parità di voti favorisce gli avversari, sempre che lo siano.
Si chiama sindrome del Nazareno, una evoluzione della sindrome di Stoccolma. Ovviamente è tutto fatto per formare un governo Pd-Fi, con larghe intese in tutto simili a quelle con cui si è chiusa la legislatura precedente e l’attuale.
Solo che a furia di esagerare si favorisce la destra più estrema, che gode di un maggior radicamento territoriale e trarrà beneficio da questa scelta più di qualsiasi altro. Se la destra avrà la maggioranza c’è il rischio che all’interno della coalizione di destra ce l’abbia la parte più a destra, anche grazie alla struttura della legge elettorale. E per formare un governo ci sarà bisogno anche di loro: come già per il Rosatellum, una maggioranza che va da Renzi a Salvini, passando per Berlusconi e il suo delfino di un tempo Alfano.
I sostenitori del partito del governo, sarà per via dell’imbarazzo o del nervosismo, contestano questa lettura, perché sostengono che a loro il Rosatellum conviene. Vero. Ma solo e soltanto per due ragioni per nulla decisive e profondamente sbagliate.
La prima: il «capo» – come lo chiama la legge stessa – deciderà tutte le candidature, e ciò piace a tutti quanti i grandi partiti, che potranno decidere chi andrà a formare quasi tutto il Parlamento, quindi anche al Pd che ha maturato una certa cultura del capo insindacabile.
La seconda: perché lasciano al capo libertà di movimento, proprio per la ragione sopra richiamata. Lo ribadiamo: le coalizioni sono dichiaratamente fittizie, perché ogni lista che le compone ha un proprio «capo» e un proprio programma. Ciò significa che si potrà mollare gli alleati della domenica del voto per sceglierne altri dal lunedì successivo.
Il trasformismo è così diventato legge. Non male come eredità della legislatura del trasformismo, che celebra il decimo anniversario del Pd ma dovrebbe piuttosto commemorare il centoepassa-nario di Depretis.
Ma c’è l’ultimo capolavoro: tutti i giornali oggi scrivono che è una legge («criminale», dice Paolo Mieli) che è stata pensata per fregare il M5s. Che per questa ragione ottiene un margine politico di opposizione notevole e può fare la vittima per settimane. Non solo. Siccome tutti gli altri o quasi sono d’accordo – tutti dimenticano che uno spicchio a sinistra non ha votato la legge, chissà come mai – il M5s può rappresentarsi come antidoto al pastrocchio. Cinque anni di larghe intese non hanno insegnato nulla.
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