L’intervento del vostro affezionatissimo, ieri, alla Camera dei deputati.
Non è che scappano dalla discussione sull’articolo 18, è che non sono proprio venuti. Il governo rappresentato, ma non dal Ministero del Lavoro. La destra che non prende nemmeno parola. La maggioranza rarefatta.
Questa dovrebbe essere la grande occasione per la riflessione sullo sfruttamento del lavoro, nella stagione politica che si apre in questo scorcio di legislatura e della prossima.
Perché il patto sociale è saltato, sia in termini di diritti sia in termini di retribuzioni. Lavoratori che pur lavorando restano poveri, persone precarie a vita per una vita che diventa essa stessa precaria, un sistema in cui il salario è la prima variabile su cui giocare.
Merce più delle altre merci. Anche chi fa della qualità un marchio, spesso trascura la qualità del lavoro e della vita del lavoratore, che invece dovrebbe essere la prima cosa da tutelare.
Le distopie in cui i robot comandano sono già qui, tra noi, se è vero che i rapporti sono spesso disumani, i licenziamenti avvengono per email, le liquidazioni sono automatiche e i robot – le macchine, gli strumenti – sono più valorizzati dei lavoratori stessi. Umani, loro sì.
Non è colpa in particolare di questo governo, la colpa di questo e altri governi è non essersi assunti fino in fondo questo stato di cose. E la sua pericolosità.
«Non è lavoro, è sfruttamento», dice il titolo di un libro che consiglio a tutti di leggere.
Giusta paga e giusta causa, lo sintetizzerei così, e aggiungerei che la giusta causa è una causa giusta, necessaria, centrale per poter definire e mettere a fuoco tutte le altre.
La precarizzazione da contrastare.
La misura da ritrovare.
Le disuguaglianze da superare.
Una riflessione che non è moneta di scambio per questa o quella forza politica, è tema politico di rilevanza assoluta. Non è argomento telefonico, è argomento parlamentare. È argomento politico.
Non è precario quel singolo lavoratore, è precaria l’Italia. L’Italia è precaria per una ragione sostanziale, etimologica e quindi fondamentale. Precario è ciò che è «ottenuto con preghiera», ciò che «si esercita con permissione, per tolleranza altrui».
È invece un fatto costituzionale: un torto subito è il giudice che lo deve verificare e mettere a posto. Non altri. Non è possibile eludere – per nessuna ragione – questo aspetto.
L’articolo 18 da solo non basta. È fondamentale che si riapra la discussione su come il contratto a tutele crescenti assicuri che esistano tutele vere e che il contratto sia «unico», appunto, come si auguravano i suoi ideatori. Affermare la necessità di un salario minimo legale per chi non è coperto dalla contrattualizzazione, per rafforzarla. Che il tempo di prova sia limitato alla prova e non sia occasione di speculazione sul costo del lavoro. Che non ci siano mille modi per far lavorare le persone e per non pagarle adeguatamente.
Si dice che l’articolo 18 è cosa vecchia perché risale agli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso. Non averlo ci riporta più indietro, però, agli anni Sessanta del secolo ancora prima, di quell’Ottocento in cui nacquero queste battaglie e la richiesta di un sistema in cui nessuno approfitti dell’altro, si approfitti dell’altro.
E ci sia una garanzia di giustizia e dignità.
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