La demografia e la geografia umana al servizio di una politica più consapevole: Fuga in Europa. La giovane Africa verso il vecchio continente di Stephen Smith (Einaudi) è un libro in cui si affrontano questioni decisive per il nostro futuro.
La crescita del numero degli africani e la decrescita degli europei (iniziata quando si è affacciata sulla scena del mondo la mia generazione) non sono fenomeni correlati. E più che della loro correlazione dovremmo preoccuparci delle risorse che il pianeta mette a disposizione per entrambi, africani e europei, a partire dall’acqua e quindi dal cibo.
E non si può nemmeno immaginare che gli europei per ‘fronteggiarli’, come vorrebbe qualcuno, possano fare più figli di loro, tornando indietro di un secolo o due. Nemmeno anacronistiche e nostalgiche riproposizioni di campagne mussoliniane tanto care alla destra italiana risolverebbero il ‘problema’. D’altra parte non è affatto detto che riducendo la quota di immigrati che si stabiliscono in Italia, nascerebbero più italiani. «Noi» nascevamo poco anche prima che arrivassero «loro».
In ogni caso il mondo sarà oggetto di una nuova composizione dal punto di vista demografico, anche se chiuderemo i confini. Anzi, soprattutto se li chiuderemo, perché è del tutto evidente che chi si trasferisce in Europa e in Occidente tende a assumere, anche dal punto di vista della scelta di fare figli, atteggiamenti più simili ai nostri di quanto accade nei paesi di origine.
Altra cosa notevole, che Smith illustra in modo molto analitico, è che se migliorano un poco le condizioni africane, per la serie «aiutiamoli a casa loro», le migrazioni aumenteranno, perché ovviamente partono non già i poverissimi, ma coloro che sono molto poveri (soltanto).
La morale è sempre la stessa: ‘sopravvivremo’ non grazie alla crescita demografica ma grazie all’innovazione, perché come ha detto un filosofo non certo di sinistra come Peter Sloterdijk, citato da Smith, «col progredire della globalizzazione, la rendita europea si vanifica». Solo con modelli sociali più inclusivi e sostenibili, con iniziative economiche capaci di migliorare la vita dei molti e non solo di pochissimi potremo reggere alle trasformazioni demografiche. La rendita è finita, tocca all’iniziativa e alla capacità di offrire soluzioni.
E dovremo abituarci all’idea che gli uomini bianchi saranno sempre meno, in proporzione al resto della popolazione umana, come del resto avviene già da decenni, senza che nessuno si sia posto il problema, che è esploso soltanto alla luce delle migrazioni e della comparsa dei neri sulla scena politica: se adottiamo il modo di ragionare del «noi e loro», «noi» siamo sempre meno, «loro» sempre di più. Succede con la crescita della popolazione asiatica, da anni.
È curioso che chi si augura che si facciano sempre più figli – anzi, che li facciano le donne, all’insegna dell’eterno maschilismo di casa nostra – si augurino che gli africani ne facciano sempre meno. La vita è un valore universale, ma fino ad un certo punto.
La scomoda verità è che viviamo sullo stesso pianeta e dovremmo ricordarcelo, anche perché una delle ragioni fondamentali che porteranno milioni di persone a spostarsi (magari anche noi stessi o i nostri figli o nipoti) saranno le questioni legate al clima e ai cambiamenti che osserviamo da anni, senza fare quasi nulla per ridurne l’impatto. E sono cambiamenti provocati da noi, non da loro, come molte altre cose che chiamiamo globalizzazione.
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