Ieri sera abbiamo presentato il libro di Elizabeth Arquinigo Pardo, Lettera agli italiani come me, nella palestra in cui Luchino Visconti ambientò Rocco e i suoi fratelli, nei sotterranei del mitico circolo Arci di via Bellezza.
Il film com’è noto (e se non è noto, consiglio di vederlo) parlava di una famiglia che emigra a Milano, mettendo in scena il conflitto inevitabile che si crea quando sono in gioco diverse modalità di approccio al nuovo luogo in cui si vive e alla modernità che vi si incontra.
Le analogie si sprecherebbero, era la Milano che accoglieva i primi «terroni», ma non è questo il punto. Il punto è che allora in Italia eravamo capaci di raccontare il Paese per com’era e quindi si sapeva come affrontarlo e come cambiarlo. Visconti raccontava il punto di vista dell’emigrato, ad esempio, noi non lo facciamo più. Visconti descriveva la vicenda umana, delle persone. Noi tendiamo a minimizzarla. Visconti non negava la violenza – anzi, passò dei guai per questo – ma la metteva in discussione, con tutto ciò che c’è in una vita vissuta.
Dobbiamo tornare a provarci, a capire le cose, a raccontarle.
A mettere a confronto punti di vista diversi, a non abbandonarci a luoghi comuni che spiegano perfettamente il presente, con uno sguardo all’indietro, senza offrirci alcuna indicazione sul futuro.
In un incontro in cui hanno parlato i nuovi cittadini, soprattutto, dimenticati da quasi tutti e gettati nel fango della propaganda politica, ci hanno parlato del razzismo di cui sono vittime, ogni giorno, dei problemi burocratici assurdi che devono superare, ma anche di una storia fatta di quotidianità, di ricerca di se stessi – come capita a tutti, a ogni latitudine, a quell’età.
Una ragazza di origini eritree ci ha invitato a studiare la storia della colonia italiana da cui proviene, un ragazzo originario del Perù ci ha raccontato della sua vita nella Bassa bresciana (qualcuno gli parla in spagnolo, ma il suo accento tradisce parlate ben più locali), una giovane donna italiana con il velo ci ha raccontato delle discriminazioni che incontra, ogni giorno, in ragione di ciò che sembra, e non di chi è. Altri hanno insistito sulla difficoltà di parlare, in modo normale, di una immigrazione che non può essere banalizzata, ridotta alla sicurezza, data per scontata.
Quando abbiamo finito, è arrivato Gesù, nel senso di Jesus, che ha qualche anno in più, e mi ha spiegato delle difficoltà di chi è qui da più tempo, che non ha incontrato percorsi di formazione e che si sente, a suo modo, «esodato».
Tutto ciò avveniva in una palestra. E mi è venuto in mente un brano di Stefan Zweig, quando scrive che il nazismo allenò all’indifferenza, prima, e poi all’orrore, un intero popolo.
Ecco, nella nostra palestra dovremmo allenarci all’incontro, alla condivisione, alla convivenza. Ad ascoltare non solo i comizi di questo o di quello, ma la storia delle persone. Non è un incontro di pugilato, non è solo una questione di muscoli, verrebbe da dire, pensando a Rocco. È un lavoro su noi stessi e, insieme, verso gli altri. Per scoprire che siamo talmente diversi da essere, in fondo, tutti uguali.
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