Ne ho sentito parlare per la prima volta a Barcellona, qualche mese fa, da un filosofo che si chiama Daniel Inerrarity. Sosteneva, Inerrarity, che per essere compiutamente rappresentativa la democrazia dovrebbe rappresentare anche quelli che non possono votare. E fin qui, direte voi, non è una grande novità. Però il ragionamento si approfondiva: quelli che non possono votare sono coloro che hanno a che fare con noi e spesso non vivono in un regime democratico (buona parte del resto del mondo). E soprattutto quelli che sono troppo giovani per votare, ma non solo: quelli che verranno.

Non una questione meramente generazionale, a meno che quando si parla di generazioni non si intendano le prossime.

Non solo quindi la proposta, ribadita anche in queste ore, di dare il voto ai sedicenni. Non solo quindi l’urgenza di una riforma che consenta di candidare alle elezioni persone che abbiano meno di 25 anni (Possibile ha composto una lista di candidati e di incandidabili, ragazze e ragazzi che non si possono candidare, perché troppo giovani o non-ancora-cittadini-benché-lo-siano). Non solo di questioni amministrative si tratta.

Si tratta di votare pensando ai propri figli e al mondo in cui vivranno – rappresentandoli, quindi -, si tratta di votare pensando alle future generazioni. È uno sforzo tutt’altro che accademico, a meno che non si voglia continuare a votare per l’abolizione delle accise che poi nessuno abolisce, per promesse che il giorno dopo sono immediatamente dimenticate, per parole veloci e eclatanti che nascondono il vuoto della mente di chi le pronuncia. A meno che non si voti per armare le persone, per poi dispiacersi che le pistole e i fucili sparino e uccidano. A meno che non si scelgano politiche di finanza pubblica che lascino a quelli che arriveranno dopo tutti i guai possibili e immaginabili. A meno che non si preferiscano i soldi regalati – a debito, oltretutto: senza averne – agli investimenti. A meno che non ci si voglia lamentare dello stato della nostra scuola, dell’università e della ricerca, che sono anni che massacriamo. A meno che non si opti per soluzioni, come la flat tax, che favoriscono quelli che hanno di più, piallando (questo sì) quelli che hanno poco e rischiano di perderlo.

A meno che non si voglia continuare a fare come si è fatto in questi anni, in cui tutto si è consumato, ben oltre le nostre possibilità, ben oltre i nostri limiti. In cui la tecnologia ha fatto grandi passi, ma per arricchire pochi e per aumentare a dismisura un predominio dell’uomo sulla natura, che si ribella e si ribellerà. Sarà questa la rivoluzione degli anni a venire. La rivolta dei mari, delle correnti (non quelle del Pd), dei ghiacciai, dei deserti. E, quindi, della fame, della sete, di una violenza che tornerà a essere quella originaria, da cui l’uomo si è a poco a poco liberato, in buona parte del pianeta. E ora che non abbiamo più tempo non possiamo più fare finta di niente.

A meno che non si voglia continuare a fare gli spiritosi con il nazionalismo, che ha distrutto intere generazioni – le precedenti -, che ha reso infelice il mondo e inospitali le stesse strade che ora percorriamo per andare a lavorare.

Devono votare i bambini, questa volta. Del resto, si vota nelle loro scuole. Ecco, prima di entrare nella cabina elettorale, guardate i loro disegni. Sono quelli i simboli che dovete tenere a mente. Un attimo prima di mettere la vostra preferenza sulla scheda.

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