Un pittore di strada arriva a piazza San Marco, a Venezia, monta i cavalletti, espone i suoi quadri, e si siede a leggere il giornale.
La gente si ferma a guardare, perché i quadri sono un po’ particolari: sono il collage di una grande – enorme – nave da crociera che entra in laguna. Dopo un po’ arrivano i vigili urbani, gli chiedono la licenza e lui non ce l’ha, quindi lo cacciano. E lui se ne va.
Il video ha fatto il giro del mondo, perché quel pittore – “di strada” in un senso molto stretto – è Banksy, lo street artist dall’identità ignota che ha colpito di nuovo, e di nuovo a Venezia, dopo che il 9 maggio aveva fatto apparire all’inaugurazione della Biennale un bambino migrante disperso in mare, con indosso un salvagente e in mano un fumogeno.
Banksy non è solo lo street artist più famoso e controverso, non è solo il personaggio che incuriosisce il pubblico per la sua identità segreta, è anche, forse, l’artista vivente più famoso del pianeta. Piace a tutti, tutti lo condividono sui social, tutti ammirano la sua capacità di rappresentare in modo semplice, comprensibile a tutti, ma anche straordinario, questioni assolutamente centrali del mondo che viviamo. Cosa che fa con un suo punto di vista, che è decisamente radicale.
Del resto è questo che fa l’arte, quella migliore: svela, rivela, rappresenta le cose nella sua essenza e verità. E a noi, pubblico, piace da impazzire. Ma poi? Le grandi navi entrano in laguna, e compromettono la conservazione di una città carica di secoli di storia e unica al mondo; i bambini muoiono in mare cercando di fuggire dalla fame e dalle guerre. E ancora, le aziende inquinano e inondano il pianeta di plastica, conflitti si consumano e famiglie vengono divise da muri in nord America come in Palestina, leader acquisiscono popolarità con l’uso della paura, della violenza, e della manipolazione del consenso.
L’artista denuncia, e la sua opera colpisce l’immaginario, ma dove siamo noi, nel frattempo, oltre che sui social, e dov’è la politica? Dove sono tutti quanti?
Da un’altra parte, ecco dove sono.
Rassegnati al meno peggio, forse, ad accontentarsi di condividere l’opera di un artista, ma non letteralmente: con un like, non con azioni conseguenti. Solo che così non basta, e forse non basta neppure all’artista stesso. Ognuno ovviamente agisce ed è responsabile sulla base degli strumenti che ha: l’artista le sue opere, gli elettori il voto.
Domenica si vota alle elezioni europee, e il governo dell’Europa sarà molto, molto importante per i destini di un sacco di cose e di persone nei prossimi anni. L’Europa è uno degli ultimi baluardi, per quanto acciaccata, di un certo modo di intendere la società umana: attraverso la democrazia, le reti sociali, la cultura, la difesa degli ultimi.
Gli anni appena trascorsi non sono stati certo esemplari, in questo senso: governi di centrodestra prima e di larghe intese de facto poi hanno fallito nell’affrontare i grandi cambiamenti tecnologici e sociali, e di fronte alla crisi economica hanno se possibile peggiorato la situazione. Il tutto mentre, dall’altra parte, questi fallimenti davano ossigeno a nazionalismi, oscurantismi, ritorni a un passato che pensavamo fosse archiviato per sempre e che puzza di dittatura, di conflitto.
Possibile si presenta con Europa Verde, perché il gruppo dei Verdi europei, in crescita, è il gruppo che a questi problemi risponde con le proposte più coraggiose e promettenti, e con un obbiettivo che è il più ambizioso in assoluto. Perché, pur nell’incertezza quasi totale dei risultati, una cosa è certa: a differenza di tutti, ma proprio tutti gli altri soggetti in campo, i Verdi Europei saranno decisivi, negli equilibri dell’Europa che verrà. A patto che ognuno di noi faccia la sua parte, proprio come accadrà in tutti gli altri Paesi che vanno al voto in questi giorni.
Tocca a noi.
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