Vi avevo promesso una noticina sul Bracciolini, quando sciacquando il furgoncino in Arno – io che ero partito dall’Irno – si ragionava di cultura, di ciò che unisce passato, presente e futuro.
Non c’era l’Erasmus, né l’Interrail, ma Poggius Florentinus fu a Cluny, a Parigi, a San Gallo, a Colonia, si spinse fino in Inghilterra, dove risiedette a lungo. «Nel 1403 ebbe a Roma l’ufficio di scrittore apostolico», riporta la Treccani, «nel 1414 seguì la Curia al concilio di Costanza, ma, più che seguirne le dispute teologiche, preferì esplorare i monasteri svizzeri e, poi, alcuni di Francia e di Germania» alla ricerca di manoscritti da recensire, si diceva così, emendare e restituire al mondo.
«Ciò che in lui colpisce di più è il gusto della cultura, la curiosità di un mondo dove non è tempo né spazio, dove gli uomini tutti i tempi conversano in un dialogo senza fine. Non patria, non città ci divide», scrive Poggio al Niccoli (Ep., I, 8): «poco mi commuove la patria (nam patria me parum movet)»; ciò che conta è la parola scambiata con chi può comprendere, sono i libri, è la cultura. Il legame ideale che ci congiunge sul piano del sapere, esse solo rompe i limiti della natura e afferma la nostra umanità» (Eugenio Garin, Storia della filosofia italiana. Volume Primo, Einaudi, Torino 1966, p. 301).
Azar Nafisi dopo seicento anni l’avrebbe chiamata La Repubblica dell’Immaginazione (Adelphi), che esisteva nella sua mente «molto prima di un mondo suddiviso in paesi e nazionalità». Come Bastian nella Storia infinita, ricorda Nafisi, in cui può essere soltanto un nuovo lettore a dare un nome all’Imperatrice per salvarla dal Nulla che sta divorando il suo regno. Non c’è fine, dunque, finché ci sarà un lettore, a rinnovare questa storia ininterrotta e appassionata. E non ci sarà fine se ne avremo cura, passione e coscienza. Ecco, la parola. Coscienza di ciò che accade a noi e intorno. Proprio ora che tutto è a repentaglio.
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