Chi mi conosce sa che ho una vera venerazione per Julian Barnes: Il senso di una fine è uno dei libri più belli che abbia mai letto (se non lo conoscete, cosa diavolo state aspettando? Precipitatevi in libreria, è un ordine).
Di Barnes Einaudi ha recentemente pubblicato un romanzo di qualche anno fa. Un romanzo che splende, in alcune pagine solenni.
Guardando il sole è la storia della lunghissima vita di una donna inglese, che incrocia, da ragazza, quella di un pilota di caccia.
Due Albe Prosser, lo chiamavano, per via di un episodio con cui il libro si apre (e, poi, si chiude).
Ecco com’è andata. Era una notte calma e senza luci del giugno 1941 quando il sergente-pilota Thomas Prosser
incrociava nei cieli della Francia settentrionale. Il suo Hurricane IIB si confondeva nel nero della notte. Dentro l’abitacolo, la luce rossa del pannello di controllo si rifletteva dolcemente sulle mani e sul volto di Prosser, che risplendeva nel buio come un vendicatore. Volava con la calotta abbassata, lo sguardo rivolto verso terra nella speranza di avvistare le luci di un aerodromo, poi all’insù a scongiurare la scia infuocata dello scarico d’un bombardiere. In quell’ultima mezz’ora che precedeva l’alba, Prosser si aspettava un Heinkel o un Dornier di ritorno da qualche città inglese. Un apparecchio che avesse scansato la contraerea, evitato il fascio dei riflettori, aggirato gli aerostati di sbarramento e i caccia notturni e che ora si fosse ristabilizzato, mentre l’equipaggio già gustava col pensiero un caffè bollente reso amaro dalla cicoria intanto che il carrello si abbassava.
E solo allora sarebbe arrivato il premio per il bracconiere. Ma quella notte non c’erano prede. Alle 3,46 Prosser stabilì la rotta verso la base e sorvolò la costa francese a 18 000 piedi. Era stata forse la delusione a ritardare il rientro più del solito perché, voltandosi verso est a guardare la Manica, con la coda dell’occhio vide che il sole aveva appena cominciato a sorgere. L’aria era leggera e limpida quando l’arancia del sole, calma e determinata, fece capolino dalla viscosa banda gialla dell’orizzonte. Prosser ne seguì la lenta ascesa. Ogni tre secondi, obbedendo a un istinto consolidato, la testa si muoveva a scatti, anche se difficilmente sarebbe stato in grado di avvistare un caccia tedesco qualora ve ne fosse stato uno nei paraggi. Null’altro avrebbe potuto riempirgli gli occhi oltre al sole che si levava dal mare: solenne, inesorabile, quasi ridicolo. Alla fine, quando il globo arancione si posò imponente sull’alzata delle onde lontane, Prosser distolse lo sguardo, tornando a percepire il pericolo. L’aeroplano nero risaltava nell’aria lucente del mattino come un predatore artico sorpreso nella vecchia pelle dal cambio di stagione. Inclinando e virando più volte, scorse sotto di sé una lunga lingua di fumo nero. Una nave solitaria, forse in avaria. Accelerò la discesa verso le minuscole onde luccicanti, finché non si profilò un robusto mercantile che si dirigeva verso ovest. Il fumo nero, nel frattempo, si era dileguato e apparentemente andava tutto bene; può darsi che stessero soltanto alimentando le caldaie.
A 8000 piedi Prosser riprese la rotta verso la base e vi si avviò a tutta velocità. A metà strada sulla Manica si abbandonò, come l’equipaggio del bombardiere tedesco, al pensiero del caffè bollente e del tramezzino alla pancetta che avrebbe consumato dopo aver fatto rapporto al suo arrivo. Poi accadde qualcosa. La velocità della discesa aveva spinto il sole al di sotto dell’orizzonte e, quando volse lo sguardo a est, lo vide sorgere di nuovo: lo stesso sole che si levava dallo stesso punto dello stesso mare. E come prima, Prosser rimase li a guardare, ignorando la prudenza: il globo arancione, la banda gialla, la linea dell’orizzonte, l’aria limpida e il levarsi evanescente del sole che affiorava dalle onde per la seconda volta quella mattina. Un miracolo ordinario che non avrebbe scordato mai più.
Jean Sergeant, la protagonista, non dimenticherà mai Prosser, le loro chiacchiere, i suoi racconti. E dopo cent’anni tornerà a quei momenti, condividendo con il figlio le domande – i perché? – che da bambini l’avevano accompagnata a lungo, fin da quando giocava con lo zio Leslie (come direbbe Nina, «perché chiedo sempre perché?»). Perché Lindbergh portò con sé cinque panini? Ne mangio solo uno e mezzo. Degli altri cosa fece? Sono davvero conservati nel museo del panino? E perché i visoni sono così ostinatamente legati alla vita?
Domande che nascondono quelle decisive, che rimangono tali. «Sono le vecchie domande di sempre, temo»: i perché di una vita, le domande che non hanno risposta. Però Barnes – nella limpida traduzione di Daniela Fargione – ci avverte: «la carota è una carota», certo, ma le due albe di un pilota ci dicono che possiamo tentare di guardare il sole, magari facendoci schermo con le dita. E può essere un miracolo – ordinario! – quella visione. Oppure è, solo, la vita.
#ilibrideglialtri
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