La traccia dell’intervento del vostro affezionatissimo, ieri, a Milano, in occasione di Generazione G, la scuola di formazione promossa da Possibile.
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Inizierò da Karl Marx.
È una pagina de La vita rivoluzionaria di Friedrich Engels di Tristram Hunt, divenuta celebre per via di un film di qualche tempo fa. E grazie al film è finita sulle magliette di parecchie persone, in giro per il mondo.
Siamo a Bruxelles, è il 1846, c’è la Lega (dei Giusti, inizialmente – tornerò sulla parola e sul concetto più avanti). Marx e Engels si confrontano con Wilhelm Weitling.
Marx sedeva da una parte, con una penna in mano e la testa leonina china su un foglio di carta, mentre Engels, il suo inseparabile collaboratore e compagno di militanza, alto e dritto, serio e distinto come un inglese, fece il discorso d’apertura.
Parlò di come le persone che si dedicavano alla trasformazione del lavoro dovessero confrontarsi tra loro e accordarsi su un’unica dottrina che potesse essere la bandiera di tutti i loro sostenitori che non avevano il tempo e la possibilità di fare studi teorici».
Ma prima che potesse scendere nei dettagli, Marx, pieno di rabbia repressa per le pretese di Weitling, saltò su e domandò: «Ci dica, Weitling, lei che ha fatto tanto scalpore in Germania coi suoi sermoni, quali sono i principi che legittimano la sua attività e che base intende darle nel futuro?». Quando Weitling, che indulgeva volentieri in astrazioni e immagini bibliche, iniziò ad esprimersi senza il necessario rigore scientifico, Marx sbatté il pugno sul tavolo e urlò: «L’ignoranza non ha mai aiutato nessuno!».
Vale per i populisti, certo, ma vale anche per noi, giovani sardine e vecchi tonni-boomer.
Frequentiamo le piazze, che non ci sogniamo di strumentalizzare, come hanno fatto tutti quanti con totale sprezzo del ridicolo. Peraltro noi in piazza ci siamo sempre, laicamente, quando le battaglie sono di moda e anche quando non lo sono ancora o quando, peggio, non lo sono più, vedi alla voce Decreti Salvini.
Quindi abbiamo solo apprezzamento e partecipazione per le piazze, quelle del venerdì, in particolare. Soltanto ci chiediamo quale strada si prenda dopo, quale direzione, con quali finalità e quali strumenti.
Pensiamo sia giusto che l’acqua in cui nuotano questi pesci vecchi e giovani prenda una forma. Che quella mobilitazione si orienti verso proposte precise che a loro volta, insieme, disegnino una proposta politica. Un progetto per il paese.
Che si associno parole e numeri. Che si tengano insieme passione e pazienza. Perché solo la costanza consente di ottenere risultati.
Che non si pensi che la storia inizi con il nostro arrivo, che è un po’ grillismo, un po’ fascismo ed è sicuramente stupido.
Che si sappia rendere popolari cose che ancora non lo sono, che si abbia la forza dell’utopia, perché senza ci teniamo quello che c’è.
Che non ci si trascini a un eccesso di realismo, ed è il primo “però”, perché va bene difendersi dagli alieni, costituzionalmente parlando, ma non possiamo solo difendere quello che c’è.
E a proposito di utopia viene in mente Gabriel García Márquez, quando ricevette il Nobel, e parlò di una «nueva y arrasadora», sconvolgente, sbaragliante, «utopía de la vida», che dia «una seconda possibilità» non solo al premier, come è capitato a noi, ma agli oppressi.
Noi invece troppo realisti, conformisti, ci adagiamo.
Ed il secondo “però” è che siamo contro l’odio, con la senatrice Segre, con chi difende la civiltà del linguaggio e con essa la nostra democrazia. Ma non possiamo azzerare il conflitto.
Perché si devono cambiare i rapporti di forza e di valore. Perché si devono tenere insieme clima e economia, diritti civili e sociali. Perché si deve sciogliere l’eccesso di concentrazione che vediamo dappertutto, perché si devono distribuire ricchezza e opportunità, soprattutto, e restituire quote consistenti di potere ai cittadini.
E va benissimo l’unità, ci mancherebbe, tutti uniti dai soviet a Calenda, “però” (il terzo “però”) poi ci sono cose che dobbiamo discutere. Un lungo elenco. Libia, Kurdistan, Regeni, F-35, i decreti Salvini sopra richiamati, l’insufficiente e a tratti ridicolo impegno per il clima, pure la TamponTaxOnlyGreen. E, ancora, il fatto che non si possa parlare di rendita e progressività. Di salari. Di diritti.
Non pensare al meno peggio, pensare a ciò che è giusto, come diceva il papà di Orso. «Il nostro governo non ha fatto nulla per schierarsi dalla parte di chi è nel giusto». Parole dure. E dolorosamente definitive. E che ricordano il commiato di Langer: «Continuate in ciò che era giusto».
Le piazze dicono che “non ci si lega”, pensando alla destra. Doveroso. Solo che pensando a quell’altra lega, quella dei Giusti, forse il nostro obiettivo è quello di legarci, appunto, di collegare le competenze, che ci sono, dappertutto. Non è il nostro un paese di cretini, solo che bisogna dare spazio a chi ne ha, anche ai giovanissimi, come abbiamo fatto oggi. Per uscire da menopeggiolandia, per andare verso l’utopia del giusto, dobbiamo proprio legarci e stare insieme, come stiamo facendo con il nostro Firmamento.
Solo ciò che è giusto, d’altra parte, muove le coscienze. E per ribadirlo, all’insegna dell’utopia, chiuderei con quello che ha detto ieri il nostro Presidente, Sempresialodato Mattarella. Uomo che ha fama di essere noioso, democristiano, in grisaglia, e che pare rivoluzionario. A Parma ha detto così:
C’è una forte tentazione, di fronte alle novità, di tornare al passato. È come un capovolgimento della prospettiva che vi si è sempre stata. Tutti ricorderanno lo splendido dialogo che Giacomo Leopardi pone tra un venditore di almanacchi e un passeggere. Il venditore di almanacchi asserisce, comprensibilmente, che ogni anno che verrà è migliore di quello che l’ha preceduto. E, con grande garbo e con grande raffinatezza, Leopardi in quel dialogo, in quello scritto, ci spiega che in realtà è il fascino del futuro che rende migliore l’attesa dell’anno a venire, degli anni a venire. Il fascino del futuro, il fascino di quello che l’umanità può fare di fare di stagione in stagione, contro la tentazione e la pretesa che i giovani siano ingabbiati nelle formule, negli strumenti e nelle soluzioni del passato, dei vecchi che li hanno preceduti. Questa è un’indicazione di fondo che non può che far optare ovviamente per l’utopia, che è tutt’altro che uscire dalla realtà, è tutt’altro che una fuga dal reale. E, del resto, quando Tommaso Moro, cinque secoli addietro, scrisse ‘Utopia’ poi adottò comportamenti così concreti nella vita reale da sacrificare la propria vita a un obbligo morale. Perché in realtà […] tra utopia e dovere morale c’è una strettissima connessione.
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