Giorno dopo giorno si apprezza di più il significato di quarantena. Perché non si contano i giorni, ma le settimane, almeno. E non possiamo distrarci, proprio ora. Ora che finalmente i grandi gruppi industriali hanno chiuso – molti, almeno -, ora che anche le banche sospendono il lavoro delle loro filiali, che si è capito che chiudere quasi tutto deve avere l’accento sul “tutto” e non sul “quasi”.

Arriva una strana primavera, è là fuori ma non sembra vera.

Guardando i film, ci si chiede come possano abbracciarsi, quegli irresponsabili che scorrono sullo schermo. E ci si rende conto che è la nostra percezione stessa a cambiare.

Ho rivisto le immagini della partita a porte chiuse di una settimana fa, mi sono reso conto che la guardavo con occhi diversi, una settimana fa. Ora non mi sembra poi così surreale. Anzi, più che guardarla, ascoltavo le voci dei giocatori. Non un altro punto di vista, un altro punto di ascolto, potremmo dire.

«Non vediamo le cose come sono, le vediamo come siamo», dice un adagio che nel corso del tempo è attribuito a un miliardo di persone, forse perché è così che stanno le cose, davvero.

Le persone, del resto, hanno un sacco di tempo però non sanno bene che farsene. Proliferano i tentativi di farsi vedere, che le doppie dirette instagram secondo me andrebbero anche studiate. Il cortile sulla finestra, diciamo. Alla rovescia.

Più che chiusi dentro, sembriamo chiusi fuori, come nel monologo finale di Blow (se non lo conoscete, conoscetelo).

C’è una lettura inevitabilmente borghese della situazione, gli ultimi non essendo contemplati dalle dirette, né dalla nostra attenzione. Però non dimentichiamoci che le cose non sono uguali per tutti, non sono uguali nemmeno le case e non sarà uguale per tutti nemmeno la quarantena dopo la quarantena, quando cioè dovremo ricominciare. Alcuni, molti faranno tanta fatica, troppa probabilmente, se non rimarremo più vigili di ora rispetto alla possibilità che a tutti ne sia concessa un’altra, di possibilità.

Personalmente ho un’esigenza di ordine e pulizia, forse una inconsapevole svolta a destra, che certamente è indotta. Credo che tra poco parlerò con la lavatrice. Programmo molte cose, con lei.

C’è un bellissimo romanzo di Julian Barnes che si chiama Il rumore del tempo. Qui è piuttosto “il silenzio del tempo”, come se fosse tutto sospeso, come se all’agenda avessimo strappato le pagine, come se apparisse vano – in fondo – ogni tentativo di dargli una misura, a questo tempo.

Leggo un sacco di piccole testimonianze in cui le persone confidano di far fatica a leggere, per esempio.

Poi certo c’è il lavoro, da lontano, come se fosse su un altro pianeta, però. Ci sono i compiti che ti sembra che le elementari siano un corso di dottorato, c’è da fare la spesa (scelta che qualcuno ha interpretato come se si preparasse ad un assedio), c’è la spazzatura da buttare – e ogni cosa che facciamo fuori di casa sembra un azzardo, una mancanza di rispetto, un atto di ingiustizia. Cosa è davvero necessario?

La verità è che la quarantena è senza tempo, si sottrae, non abbiamo le categorie per definirla e interpretarla. E per evitare che diventi un’abitudine, però, non è il caso di farsi domande ma di attenersi a ciò che ci è stato detto di fare, che è diventato anche ciò che ci sentiamo di fare. Le domande ce le faremo dopo e, forse, alcune, avremmo dovuto farcele prima.

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