«Qui ogni giorno è un aggiornamento su morti, amici ricoverati… e non sono numeri, i numeri di un’epidemia. Sono le mogli, i fratelli, gli amici di qualcuno che soffre. Sono volti e storie. E il pensiero mi porta ad un parallelismo con le storie migranti, che sono diventate numeri di propaganda e non le storie umane e fragilissime di donne e uomini in fuga. Ci si sente sempre immuni dalle disgrazie perché abbiamo perso il senso dell’altro che è in noi».

Me lo scrive un’amica da Bergamo.

Ecco, i numeri tornano ad essere persone. Non sono dati statistici, non è solo un conto, sono amici, persone che si conoscono. Non sono solo un foglio excel o un grafico, sono preoccupazioni che hanno un nome, un volto.

E l’immunità, no, non l’abbiamo nemmeno noi, da questa parte fortunata del mondo. Non siamo al riparo, siamo più esposti di altri. E lo saremo ancora, che sia d’insegnamento – almeno.

La sensazione è di un blocco generale. Ovvero, la preoccupazione che ci troviamo in un’impasse, da cui è difficile uscire. I danni economici sono incalcolabili per alcuni. Per gli altri sono solo calcolabili, invece, ma non è una bella cosa lo stesso. Siamo in panne e non si può nemmeno chiamare il carro attrezzi.

Stiamo dando per scontato che siamo passati dall’io al noi in un batter d’occhi. Però, attenzione, ci sono parecchi però.

Perché ciascuno di noi percepisce che al di là della retorica dell’unità nazionale, dell’andrà tutto bene, dopo una decina di giorni, già faccia capolino l’eterno «si salvi chi può». La lobby schei è già al lavoro, tutti con le mani avanti. Guantate, ma avanti. E tutta questa storia nasce, per buona parte, da un conflitto: tra il produrre e il fermarsi. Nella provincia e nelle valli della Lombardia.

Insomma, non è detto che alla fine del virus ci sarà il socialismo tipo Sanders, che intanto ahinoi sta perdendo una primaria dietro l’altra. Anzi, il darwinismo del virus, che colpisce gli anzianissimi, gli ammalati, i fragili e per le sue conseguenze i più deboli e i più poveri rischia di trovare diretta applicazione anche quando sarà passato.

Forse è solo l’immobilità del tempo a farmelo pensare. Mia figlia ha fatto una lezione con la maestra via Skype e per un attimo ho avuto la sensazione di essere tornato io, alle elementari. Nel tempo irreale del coronavirus, anche questo è possibile. Avrei voluto partecipare al dettato: la prossima volta, promesso, mi collego e lo faccio.

E se mi chiederanno la data, non specificherò, metterò solo “marzo 2020”.

Domani è un altro giorno, solo che non mi ricordo quale.

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