Finisce marzo, inizia aprile, personalmente punto tutto su maggio.

Passano le stagioni, ma solo quelle di Netflix.

Dalla tolda terrazzo di un palazzo romano mi arrivano foto assolate e solitarie, come capitani nella bonaccia.

Va tutto piano, troppo.

Si sente parlare di condoni e di sanatorie, senza cogliere la perfida ironia del termine stesso. Più che condoni servono ancora cordoni, quelli sì sanitari.

Aruspici indicano la data della riapertura interpretando il volo degli uccelli confindustriali. Eppure da Hong Kong sappiamo che è meglio evitare di essere precipitosi, perché sarebbe il colmo aprire per poi dover richiudere dopo una settimana.

Si odono ovunque sproloqui sulla sanità, quando tutti l’hanno tagliata, anno dopo anno, governo dopo governo. Dai tagli ai ragli, il passo è immediato.

Si inaugurano centri ospedalieri senza rispettare le indicazioni minime sulla distanza tra le persone e gli assembramenti. Tipo fiera del virus.

Si sprecano le metafore alpinistiche. Dal picco siamo passati al pianoro. Plateau molto poco rosa. Plan de Corona, piuttosto. Siamo al rifugio. La discesa? Chissà.

Fortunatamente sembra essersi sbloccata la filiera delle mascherine. E altri si muovono, sul versante sanitario, per prepararsi ad affrontare la quarantena dopo la quarantena, quando scenderemo, appunto: piano piano e con cautela.

In un universo parallelo sarei a Parma a parlare di clima, oggi. Attraverserei il centro della città a piedi, mi fermerei in libreria, prenderei un treno. Arrivato a destinazione, prenderei un caffè lungo la strada. E magari mi fermerei su un muretto. A guardarmi intorno.

Ecco il sereno. Rompe là da ponente, alla montagna.

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