Il confronto con la Germania potrebbe sembrare impietoso. Però forse è a loro che dobbiamo guardare, se è vero che hanno fatto alcune cose decisive, che sicuramente possono tornare utili anche a noi. Anche oggi. E se non le abbiamo fatte prima, le possiamo fare ora.

Lo scrive oggi Fabio Sabatini su Twitter, riprendendo un articolo del New York Times di Katrin Bennhold. Di Sabatini cito alcuni passaggi:

Prima dell’inizio della crisi, la Germania ha predisposto la produzione di massa di test kit per il #coronavirus. Secondo quanto riferisce Katrin Bennhold sul New York Times, oggi in Germania si effettuano almeno 350mila test a settimana.

La Germania ha sfruttato questi mesi per rafforzare la capacità dei reparti di terapia intensiva. Come spiega Katrin Bennhold, a gennaio in Germania c’erano 28.000 posti in terapia intensiva, 34 ogni 100.000 persone (in Italia sono 12).

Il personale sanitario è testato regolarmente, mentre in Italia medici e infermieri trovano grandi difficoltà nell’ottenere di essere sottoposti a tampone, anche quando mostrano sintomi dopo essere stati in contatto con casi conclamati.

Le autorità sanitarie tedesche pianificano di effettuare test sierologici su campioni casuali di 100.000 persone ogni settimana, per capire chi ha conseguito l’immunità (e allentare di conseguenza le restrizioni in modo mirato).

Finalmente, dopo le inchieste di Francesca Nava e di altri, il caso di Bergamo arriva al Corriere della Sera. È una storia agghiacciante e come scriveva ieri sera in un tweet Johannes Bückler: «quello che sta accadendo a Bergamo rispetto ad altre zone non è dovuto al caso». Non è da meno il guaio delle RSA lombarde, di cui scrivono tutti, in queste ore.

Nel frattempo emerge che il lockdown per le imprese è stato aggirato, grazie a un testo del decreto a maglie troppo larghe. In alcune province il Prefetto ha accolto quasi tutte le richieste di deroga per continuare a lavorare. E i dati, anche al Nord, confermano che una percentuale molto alta delle imprese ha continuato a farlo, anche dopo il diktat-che-non-lo-era del 22 marzo. Nota bene: avendo un’impresa, in un settore che soffre tantissimo, non ho niente contro le imprese. Segnalo soltanto che riapriremo più tardi, tutti quanti, per l’ostinazione di alcuni, chissà quanto giustificata.

Tornando alle premesse, fare cose tedesche, per intenderci, può essere utile ora. Non solo sul versante sanitario e non solo sul versante del contrasto al virus. Perché ci sono alcuni fondamentali che dobbiamo rimettere a posto, nei prossimi mesi, e riguardano la nostra struttura sociale, prima di tutto. E la qualità dei servizi. E alcuni investimenti, che abbiamo dimenticato di considerare per troppo tempo.

Dicono che siamo in guerra. A me la metafora non è mai piaciuta. Però è chiara una cosa: un dopoguerra, ci vuole. Non una guerra, quindi, ma proprio per evitarla, la guerra.

Perché le garanzie per il sistema produttivo, che stanno per arrivare, saranno decisive. Ma lo sarà anche la fiducia tra chi lavora e produce e commercia. La serietà dei comportamenti. Ancora più difficile dello stare chiusi in casa, sarà uscire bene e insieme da questa crisi. A debita distanza, ma solo fisicamente.

Come in quella scena di Nemo in cui lo squalo deve fare di tutto per non mangiare i pesciolini. Deve sforzarsi, proprio. E poi non resiste. Ecco, la solita storia del pesce grosso e il pesce piccolo. E le regole per evitare che sia un massacro. Per l’Italia e, al suo interno, per chi è stato colpito più duramente. E anche per chi si è attenuto più scrupolosamente alle regole che sarebbe il colmo se fosse penalizzato.

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