Nel corso di alcune presentazioni fatte insieme all’autrice, e preparandomi alle prossime, mi sono trovato più volte a riflettere su un paradosso che fa da ordito all’intreccio di Dove sei?, il libro di Roberta Lena che abbiamo pubblicato qualche settimana fa con People.
Si tratta, come già ricordavo in un post precedente, di un libro sulla libertà. Quella del popolo curdo, e del meraviglioso esperimento politico del Rojava, del tutto inedita in quel quadrante dello scacchiere mondiale. Un modello che potrebbe insegnare parecchio anche a chi fa parte di nazioni che si considerano all’apogeo della civiltà e della tutela dei diritti di tutte e tutti.
La libertà però è anche quella di Maria Edgarda – o Eddi, come la chiama la madre – che sceglie di mettere a rischio la propria vita per difendere la causa curda.
Il paradosso è che entrambe queste libertà sono di fatto messe in discussione, nel libro, non dall’antagonista naturale, che dovrebbe essere l’Isis, negazione incarnata di tutto ciò per cui Eddi e le donne del Ypj si battono. No, man mano che ci si avvicina alla fine del libro, ci si rende conto che a negare la libertà di queste donne è una certa parte dello Stato, delle istituzioni del nostro Paese.
È negata la lotta per la libertà e l’autodeterminazione delle donne curde del Ypj, e con loro di tutto il Rojava. Lo è in generale, da troppo tempo: quando Erdogan ha deciso di attaccare quel popolo, nessuno, in Italia e in Europa, si è alzato per fermarlo. Non è stato fatto nulla di nulla. Anzi. Si è lasciato fare, violando in modo efferato la vita sociale e personale di quelle persone.
E lo è, negata, nel momento in cui Eddi, rientrata in Italia, è messa sotto la lente di ingrandimento e sostanzialmente equiparata ai foreign fighter, a chi ha lasciato il proprio paese di residenza per abbracciare la causa opposta, quella dell’Isis, quella dell’estremismo islamico. Ed è negata ancora e ancora, la libertà di Eddi.
È negata quando le si nega la libertà di combattere per un causa che sente come sua. I parallelismi si potrebbero sprecare, su questo: pensate soltanto alla guerra civile spagnola e alle brigate internazionali che allora si mobilitarono e andarono a combattere.
È negata quando il Tribunale di Torino la giudica “socialmente pericolosa” e le impone per due anni la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, misura che comporta enormi restrizioni alla libertà personale, in ogni accezione del termine.
L’ultima negazione della libertà, ancora più delle altre, ci riguarda tutte e tutti. Ciò che sottende alla tesi del Tribunale di Torino che il 17 marzo ha emesso quel decreto nei confronti di Eddi, è la negazione del diritto al dissenso nel nostro Paese. In seguito all’apertura del procedimento giudiziario nei suoi confronti, è stata fortissima l’ondata di indignazione per l’iniziale tentativo di equiparare l’adesione alla causa curda con quella all’Isis, e questo ha spinto la Corte a rivelare la reale natura della condotta “antisociale” di cui si sarebbe macchiata Eddi: aver partecipato a alcune manifestazioni di protesta e di denuncia contro la Tav in Valsusa, per i diritti del lavoratori, contro la vendita di armi ai paesi che combattono il popolo curdo. In quest’ultimo caso, in particolare, la pericolosa attività eversiva consisterebbe nell’aver partecipato a un’azione dimostrativa alla Camera di Commercio di Torino, staccando la spina a qualche monitor promozionale all’interno dell’edificio.
È ovviamente concessa a Maria Edgarda Marcucci la possibilità di presentare ricorso contro il provvedimento emesso nei suoi confronti. Chiunque abbia a cuore la nostra Costituzione, chiunque pensi che il diritto al legittimo dissenso sia un bene preziosissimo e da proteggere, chiunque si indigni al sentire richiamati concetti pretestuosi – non a caso derivanti dal Codice Rocco – come quello di “pericolosità sociale” che fanno da paravento alla volontà di repressione, dovrebbe sostenere la “causa” di Eddi e chiedere con forza che il suo ricorso venga accolto, e che il Tribunale di Torino le restituisca la libertà che le ha negato. Con People ci mettiamo in prima fila, in questo.
Consapevoli che c’è una libertà che Eddi non potrà negare nessuno, e che traspare chiara da queste sue parole pronunciate proprio in quel Tribunale:
«Avevo letto, ascoltato racconti, mi sembrava che quella rivoluzione parlasse la nostra lingua e fosse importante sostenerla e andare a imparare qualcosa da loro. Una volta lì mi è stata ancor più chiara l’importanza storica di questo processo: fermare l’Isis e la sua ideologia era una questione che riguardava tutto il mondo, come lo fu la sconfitta del nazifascismo. Più tempo passava, più mi rendevo conto che tutto quel che stava accadendo lì riguardava anche noi. Mi metteva sempre più a disagio la contraddizione tra l’essere fermamente convinta che quella fosse anche la nostra battaglia e il lasciarla tutta sulle spalle di qualcun altro. Ho dunque seguito la mia coscienza e mi sono unita alle Ypj, un corpo combattente tutto femminile. Lì ho condotto una vita comunitaria, ho stretto legami profondi e indissolubili, ho dato un contributo, seppur piccolo, nel difendere i valori in cui credo. Ho partecipato alla vita di una società in cui le differenze sono una ricchezza, in cui le donne sono protagoniste della loro vita, in cui ci si prende cura della terra e delle persone anche e soprattutto nei momenti difficili. Penso che sia fondamentale condividere e informare su quello che sta accadendo lì; il popolo siriano sta riuscendo a reagire alla tragedia di una guerra lunga un decennio, questa è la prova che per ogni popolo del mondo c’è la speranza di costruire un futuro di pace, uguaglianza e libertà».
[Illustrazione di Tommaso Catone]
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