La geniale autorecensione per immagini di Makkox, pubblicata oggi dal Post, non è verosimile. È neorealismo proprio.
Due anni fa gli scrissi un messaggio: «perché non facciamo un libro?». Partì una sarabanda di risposte che andrebbero pubblicate anch’esse, ora che ci penso.
Prendemmo l’abitudine di vederci all’Arco della Pace, ogni lunedì mattina. Al solito posto. Caffè e poi pranzetto, in un altro solito posto. Iniziammo a prendere appunti e a immaginare tavole. Makkox per farsi perdonare di una certa qual lentezza mattutina disegnava me in ritardo (!) e una volta fece una vignetta in cui prendevo le distanze dal libro stesso, mi scindevo e urlavo che avrei fatto un libro mio.
Era tipo Jannacci e l’Armando, come schema concettuale.
La mia idea era che Makkox dovesse fare un tutorial su come si diventa Makkox. Un tutorial impossibile, come scrivo nella prefazione. La ragione? Mi pareva che la sua storia personale sbaragliasse una tonnellata di luoghi comuni e fosse appassionante, tipo Salgari.
Mi appassionava l’idea di un talento mostruoso e di un metodo che non perde mai un colpo e una scadenza, una storia di ricchezza e di povertà, di migrazioni e di cambiamenti, di mille cose diverse, in un plot tra Omero e Disney. Il ragazzetto che disegnava sempre, i lavori di fatica, le tavole che diventavano carta moneta. Nell’Italia tra i due secoli, che a dirla così sembra pure una cosa seria. Perché lo è.
Mi mandò alcune pagine che trovai bellissime e iniziammo a pensare di farlo il libro, sul serio. Poi successero un sacco di cose, ci ritrovammo insieme nei giorni del Papeete, ci perdemmo di vista e poi finalmente la situazione si sbloccò e grazie a Nicola Mirenzi, una figura mitologica, metà editor, metà coach, eccoci qui.
Ho un debole per l’uomo e ne sono l’editore, quindi il mio parere non conta nulla e anzi può solo peggiorare le cose. Ciò detto, il libro è un capolavoro. Anche solo a vederlo, dico. E a ripensare a come è nato e cresciuto. E al piacere che farà leggerlo, perché leggerlo fa bene.
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